L’annuncio di Cristo ai giovani

Quaderno 18 – Per essere padri, non occorre essere persone perfette, completamente convertite. È necessario però essere in cammino.

«La chiamata dei primi discepoli», di Claudio Pastro. Santuario de Aparecida, San Paolo del Brasile.

Per riflettere sul tema del nostro incontro, vorrei prendere le mosse da due fatti recenti che hanno avuto rilievo nei mezzi di comunicazione di tutto il mondo. Mi riferisco alle dimissioni presentate al papa dai vescovi cileni in seguito agli abusi di cui si sono resi colpevoli numerosi sacerdoti e alla vittoria del sì nel referendum per la legalizzazione dell’aborto in Irlanda.
Due fatti la cui interpretazione dominante offerta dai mass-media ha toccato il tema della appartenenza alla Chiesa cattolica. In sintesi si è detto che il popolo irlandese ha fatto un passo in avanti sulla strada dell’emancipazione dall’influenza della Chiesa e che quello cileno ha finalmente avuto l’occasione per aprire gli occhi sulla necessità di farlo.

Per quanto riguarda l’Irlanda, il dato interessante è che del gruppo maggioritario, cioè del partito che si denomina pro choice, fanno parte l’85 per cento dei giovani che hanno votato. Mi è rimasta impressa un’immagine pubblicata su un giornale italiano: una ragazza spunta al di sopra della folla sulle spalle del suo compagno, con il pugno alzato, ed esprime la sua esultanza in un sorridente grido di vittoria [La foto, scattata da Clodagh Kilcoyne per la Reuters, è stata pubblicata sul Corriere della sera, domenica 27 maggio 2018, p. 11.]. Un entusiasmo libertario, che ha per oggetto direttamente o indirettamente proprio la Chiesa e la sua influenza. È questa l’icona di ciò che sta avvenendo, in cui molti oggi – e soprattutto giovani – si identificano quasi naturalmente.
Mi interessa però soprattutto guardare al Cile, per il fatto che in quella terra abbiamo una missione numericamente consistente, caratterizzata in questi anni proprio da un bel tentativo di proposta rivolto ai giovani della periferia di Santiago dove abitiamo.

Lorenzo Locatelli, di ritorno da un’assemblea del Sinodo diocesano, riferendomi di alcuni interventi a cui aveva assistito, mi ha detto: “Non sono le parole che ci si aspetterebbe da figli addolorati per gli errori dei padri, ma un grido disilluso che chiede giustizia e vendetta”. Gli ho chiesto perciò di scrivermi le osservazioni che vi riporto: “Gli abusi – sessuali, di autorità e di coscienza – sono la conseguenza di una evangelizzazione che ha dimenticato la persona di Gesù; ha dimenticato la vera natura della Chiesa come luogo di incontro con il Signore”. Prosegue poi, specificando che “si è perso il centro spirituale della vita sacerdotale, che è innanzitutto il rapporto personale con Cristo”. E infine: “Ascoltando gli interventi dei preti e dei laici negli incontri che abbiamo avuto in questo tempo, ci siamo accorti di un’altra grande conseguenza di questa crisi. Conseguenza o causa? Non lo saprei dire. In ogni caso, si giudica la figura del padre, quindi dell’autorità, quindi del sacerdote, partendo dalla sua distorsione. Da questo nasce il giudizio che ogni paternità è in sé sospetta, un male da prevenire. Questo, purtroppo, è un sentimento condiviso dagli stessi preti che in molti casi non hanno mai avuto una figura significativa a cui guardare. In Cile, infatti, ci sono stati sacerdoti influenti, grandi figure di riferimento, che hanno tradito questa fiducia. Di conseguenza, molti preti, anche tra i nostri amici, sono spaventati dal semplice fatto che il loro posto nel popolo di Dio implichi una responsabilità di guida”.

Giovani che si allontanano dalla Chiesa

Tornerò più avanti su questi giudizi che ci arrivano dai nostri fratelli cileni. Credo infatti che essi individuino il cuore della questione posta dalla crisi che la Chiesa sta attraversando o almeno uno dei suoi fuochi principali, ma anche il contributo che noi siamo stati chiamati a dare. Prima però voglio segnalare l’emergere di una preoccupazione che va ben oltre l’ambito delle nostre missioni.
Già all’inizio degli anni Trenta, François Mauriac denunciava un fenomeno di cui pochi allora si accorgevano. Parlando della prima comunione che i bambini ricevevano nelle parrocchie francesi del suo tempo, l’autore della famosa Vita di Gesù scriveva:

«Possiamo anche commuoverci per questa festa di un giovedì di primavera, dalle strade affollate di piccole bambine in velo bianco e di ragazzetti infastiditi dal primo solino inamidato; ma per molte famiglie, questa cerimonia non inizia nulla e finisce tutto. Il ragazzo si è liberato ormai dalla Chiesa e dal prete; d’ora in avanti basterà essere seri. Il più bel giorno della vita: convenzionalità che perpetua tra noi il tradimento […]. Molti sono i bambini che ricevono Cristo: ma è una specie di segnale, il segno ufficiale e riconosciuto da tutti che essi stanno per abbandonarlo.» [François Mauriac, Giovedì Santo, Morcelliana, Brescia 1955, pp. 61-62.]

Il distacco dei giovani dalla Chiesa, ormai largamente consumato, è nel frattempo diventato una preoccupazione generale. E anche di questo si occuperà il sinodo sui giovani convocato dal papa a Roma fra pochi mesi.
Parlando ai vescovi italiani riuniti per l’assemblea generale della CEI, il 21 maggio scorso, Francesco ha sollevato esplicitamente un tema che sta in connessione diretta con l’allontanamento dei giovani dalla Chiesa, quello della crisi delle vocazioni: «È la nostra paternità quella che è in gioco qui! […] Quanti seminari, chiese e monasteri e conventi saranno chiusi nei prossimi anni per la mancanza di vocazioni? Dio lo sa. È triste vedere questa terra [l’Italia], che è stata per lunghi secoli fertile e generosa nel donare missionari, suore, sacerdoti pieni di zelo apostolico, insieme al vecchio continente entrare in una sterilità vocazionale senza cercare rimedi efficaci. Io credo che li cerchi, ma non riusciamo a trovarli!» [Francesco, Discorso in apertura dei lavori della 71ma Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, 21 maggio 2018].
Non riusciamo a trovare rimedi adeguati, dice il papa, che – al di là dello specifico problema delle vocazioni – permettano di ricreare le condizioni per un incontro positivo dei giovani con la Chiesa che cresca fino a diventare un senso stabile di appartenenza. Questa crisi non tocca però solo la Chiesa in generale, tocca noi in modo molto diretto: è la ragione per cui don Julián Carrón ha recentemente insistito nel sottolineare che il nucleo del problema è la mancanza o la fragilità degli adulti e degli educatori [Cfr. Julián Carrón, Un salto di autocoscienza, in «Tracce», 4 (2018), I-VII]. La crisi tocca anche gli ambiti di cui noi, preti della Fraternità, siamo direttamente responsabili o in cui siamo impegnati. La partecipazione alle iniziative che proponiamo non porta automaticamente all’esperienza di un incontro personale con Cristo e spesso dobbiamo constatare che solo in pochi scatta qualcosa di profondo.

Una riforma della vita della Chiesa che incida nel profondo, trova il suo fondamento in un vero rinnovamento del sacerdozio.


A prescindere dalle condizioni in cui lavoriamo o dal numero dei ragazzi con cui veniamo in contatto, avvertiamo la difficoltà a trovare modalità adeguate per raggiungerli e coinvolgerli. È significativo che le questioni che sono emerse durante i nostri ultimi incontri sono simili a quelle già accennate, poste dal papa e da Carrón. “Che tipo di adulti incontrano i bambini, quando entrano nella catechesi?” si chiedeva Giovanni Musazzi. “I ragazzi hanno davanti ai loro occhi troppi esempi contraddittori” completava Nicola Ruisi, “uomini e donne che dicono di aver la fede ma vivono secondo il mondo; uomini e donne che hanno una fede tiepida o per i quali la fede è solo un aspetto tradizionale della vita; uomini e donne che sono nemici della fede; insegnanti, genitori, compagni che esaltano la scienza e trattano la fede come una delle tante invenzioni della fantasia umana”.
Per quanto riguarda strettamente la Fraternità san Carlo, credo sia un bene prendere atto con onestà di questa situazione, guardando con umiltà alla nostra azione, senza scaricare le responsabilità sul contesto culturale, sul momento storico o sulle scelte di altri. Voglio perciò indicare quelle che mi sembrano essere due condizioni importanti per una rinascita della Chiesa tra i giovani, che ci coinvolgono direttamente in forza della nostra vocazione e del compito che Dio ci ha affidato.
La prima è un rinnovamento del sacerdozio. La seconda è un senso positivo della tradizione.
È superfluo precisare che le considerazioni che seguono non pretendono di esaurire le risposte alla gigantesca questione di cui parliamo. Vogliono solo essere un richiamo a vivere fino in fondo la nostra vocazione.

Il rinnovamento del sacerdozio

Credo che una riforma della vita della Chiesa che incida nel profondo – e perciò generi anche una nuova capacità di interpellare la vita dei giovani – trovi in tutte le stagioni della storia il suo fondamento anche in un vero rinnovamento del sacerdozio. Parlando di riforma, non mi riferisco a un piano generale; voglio invece sottolineare umilmente il contributo specifico che noi possiamo portare alla Chiesa da subito. Rinnovare il sacerdozio significa infatti per noi concretamente rinnovare noi stessi. Ciò che avverrà in noi potrà poi influire sul grande corpo della Chiesa, secondo dimensioni storiche che saranno decise da Dio ma anche dalla forza e dalla radicalità della nostra risposta all’appello delle circostanze di questo nostro presente. Tutto quello che possiamo fare è, in fondo, rinnovare noi stessi e riformare le nostre vite: sarà un frammento di quel sacerdozio rinnovato di cui la Chiesa in questo momento ha particolare bisogno.
Vorrei richiamare, solo per accenni, tre esperienze positive che per grazia sono reali tra noi e alle quali cerchiamo di educarci costantemente: la comunione tra i sacerdoti, l’esperienza della verginità vissuta nel sacerdozio e, infine, la tensione alla conversione che ciascuno di noi è chiamato a vivere come posizione personale permanente.

Il segno della comunione tra i preti

Voglio offrirvi anzitutto una considerazione basilare, che emerge dall’esperienza di ciascuno di noi ma che spesso nei fatti possiamo dimenticare: i giovani sono attratti dalla comunione e dall’amicizia che vedono tra gli adulti.
Il cuore di un giovane desidera il compimento affettivo in un amore vero, in un’amicizia autentica, sincera, costruttiva. Laddove la vede in atto e accetta l’invito che essa rappresenta, la sua vita cambia, perché la nostalgia e il senso di solitudine che naturalmente un ragazzo vive, incontrano in essa una strada di risposta.
Una nostra casa, due o tre preti che svolgano il loro lavoro riferendosi l’uno all’altro con il desiderio di condividere criteri e giudizi, iniziative e proposte, incontri e rapporti che nascono sono un segno grande anche e soprattutto per i giovani. Per quanto noi possiamo a volte sentire faticoso il viverla, la nostra comunione emana una luce che genera di per sé un desiderio di appartenenza nei cuori di chi si trova sulla soglia dell’avventura della propria vita consapevole.
In questo senso, una tendenza che dobbiamo continuamente combattere è l’individualismo, che spesso viviamo anche senza rendercene conto lucidamente. Nelle nostre case, accade a volte che la fatica a collaborare e a condividere pensieri ed esperienze limiti le possibilità di bene che ci vengono offerte dalla realtà in cui viviamo. Vivere insieme il nostro tentativo missionario rimane comunque l’ideale a cui tendere, senza stancarci e senza spaventarci della fatica e delle cadute.
Un campo fondamentale in cui vivere questa tensione è quello del lavoro missionario. Don Massimo ci ha spesso parlato a questo proposito di “generazione comune” e ci ha richiamati al fatto che questa esperienza appartiene primariamente alla sfera della concezione di sé. Prima ancora che una concezione della propria opera, è anzitutto quel “noi” che uno ritrova alla radice del sentimento del proprio io. Tocca quindi la sfera dell’appartenenza, del sentirsi mandati insieme, del sentirsi parte di un corpo, cioè di una realtà più grande del proprio io, più grande perfino delle immagini che ciascuno di noi ha della propria realizzazione individuale o del bene della Chiesa che serve.
“Generazione comune” significa concepire la propria opera come organica a uno scopo unico. Nessuno di noi è mandato come individuo a svolgere una sua iniziativa slegata da una missione più ampia. L’unità del tentativo missionario – della casa, della Fraternità, del movimento, della Chiesa tutta – viene perciò prima della particolarità del proprio apporto e questo deve essere concepito a partire da quella unità, cioè a partire dalla totalità dello scopo. L’unità della nostra opera missionaria non cresce come somma delle nostre singolarità, come spesso pensiamo. Accade piuttosto il contrario: nella partecipazione cordiale a un grande disegno, il mio dono unico viene esaltato e la mia irripetibile vocazione si manifesta, emerge nel tempo in tutta la sua potente originalità.

Per collaborare veramente con i miei fratelli, mi è dunque richiesta una profonda rivoluzione spirituale: devo arrivare a sentire “mio” quello che fanno gli altri e, allo stesso tempo, a sentire “nostro”, cioè non mio, quello che faccio io. Vorremmo meritare la lode che san Paolo rivolge a Timoteo: Non ho nessuno che condivida come lui i miei sentimenti e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo (Fil 2,20-21).
Sentire mio ciò che è della Fraternità, del movimento, sentire “mio” ciò che è della Chiesa come tale: la generazione comune è un atteggiamento che ci immette in un orizzonte universale. Se io non concepisco la mia opera come mia ma come parte di un tutto, allora essa si dilata fino a raggiungere i confini del mondo intero.
Costa a volte sacrificio, ma quale profondità di condivisione e di amicizia può nascere dal lavorare insieme con questa coscienza! E quale fascino suscita la comunione tra uomini adulti, uniti dalla stessa vocazione, educati a una stessa visione delle cose, animati dall’unico slancio di portare Cristo agli uomini di tutta la terra! È il fascino di Cristo stesso che supera la storia e si rende presente attraverso di noi. È lui infatti che ci rende una sola cosa, perfetti nell’unità (Gv 17,23) per manifestarsi al mondo.

Il segno della verginità del sacerdote

La seconda considerazione tocca il tema della verginità nel nostro lavoro missionario.
Voglio rievocare anzitutto un’immagine che mi ha colpito. Si tratta della testimonianza di una delle persone che fu più vicine a Giovanni Paolo II e racconta il suo primo dialogo con lui, avvenuto in confessionale.
L’incontro avviene in una chiesa di Cracovia. Scrive Wanda Póltawska:

«Sull’altare della Madonna di Ostra Brama, una riproduzione eccezionalmente bella: nel buio la sua immagine è visibile per il luccichio della corona. E nel confessionale quel sacerdote, così attento, così concentrato nell’ascolto di quanto dicevo e anche di quanto non sapevo esprimere; e la sua reazione. […]
Non gli chiesi di essere il mio padre spirituale, non dissi niente del genere, quello venne fuori da solo, quando come conclusione mi disse, come nessun sacerdote aveva fatto prima: “Vieni la mattina alla messa, vieni ogni giorno”. […] prima mai nessun sacerdote me l’aveva detto, anche se alcuni mi avevano proposto un incontro, mi avevano invitato ad andare da loro; quel sacerdote invece non mi aveva detto: “Vieni da me”, ma: “Vieni alla messa”. Molto tempo dopo, quando potei ormai osservare da vicino come egli celebrava la messa, capii che per lui quel comportamento era ovvio, perché viveva di Dio. Lui non voleva dare se stesso agli uomini, ma condurli a Cristo, per così dire, attraverso se stesso, ma non a se stesso. Fu per me ovvio che avrei accolto l’invito e sarei andata al mattino alla messa, e tutte le mattine, perché quello era il senso dell’invito.» [Wanda Póltawska, Diario di un’amicizia. La famiglia Póltawski e Karol Wojtyla, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp. 40-41].

L’esperienza di questa donna mette bene in luce lo splendore della gratuità che emana da un prete che viva una vera verginità. E mostra anche qual è il segreto della verginità vissuta: il proprio personale rapporto con Cristo.
In forza del suo compito nella Chiesa, il sacerdote ha una grande possibilità di influenza sulle persone che entrano in contatto con lui e sugli ambienti in cui opera. Se dunque il sacerdote non ha raggiunto una sufficiente maturità affettiva e spirituale, una vera libertà interiore, coscientemente o incoscientemente, nella sua azione inseguirà un suo tornaconto. A seconda dei casi, sarà un bisogno – non riconosciuto o non adeguatamente contestato – di affermazione personale, di conferma psicologica, di ritorno affettivo. Sono queste le spinte nascoste che spesso portano i preti a incarnare nella loro azione di servizio alla Chiesa criteri mondani. Da queste zone irredente nelle persone dei sacerdoti derivano nella Chiesa divisioni, confusione dottrinale e morale, debolezza di guida, oppure, specularmente, una tendenza all’arbitrio nell’esercizio della propria funzione che può portare fino agli abusi e agli scandali che stanno provando la fede dei fedeli in tanti posti del mondo.
Nella sua casa, nella Fraternità, ciascuno di noi può trovare, se lo desidera, un luogo che lo contesta amorevolmente, smascherando queste spinte che vivono anche in noi. Spesso è l’ironia che alleggerisce la nostra convivenza il mezzo più ordinario di questa contestazione, altre volte è invece un giudizio di correzione che può essere anche difficile da accettare. In ogni caso è una grazia il fatto stesso che ci sia qualcuno che è attento alla nostra vita, che reclami il diritto di avere parte in essa, che viva la carità di una parola che ci aiuti a considerare la verità di noi stessi.

È una grazia il fatto stesso che ci sia qualcuno che è attento alla nostra vita, che reclami il diritto di avere parte in essa, che viva la carità di una parola che ci aiuti a considerare la verità di noi stessi.

Aiutiamoci dunque ad accogliere questa paterna iniziativa di carità che Cristo prende instancabilmente nei nostri confronti, perché non accada che la grazia ci sia stata data invano (cfr. 2Cor 6,1).

L’amore al proprio cammino di conversione

Infine voglio sottolineare che per essere padri, non occorre essere persone perfette, completamente convertite. È necessario però essere in cammino. Non basta dire a noi stessi di aver già camminato tanto; corruptio optimi pessima, ripeteva spesso il mio professore di latino al liceo. È necessario voler continuare a essere in cammino, chiaramente e apertamente in cammino. Voglio spiegare la scelta dei due avverbi che ho usato. Chiaramente: è necessario che io riconosca con chiarezza quali sono le zone della mia vita e della mia persona che non ho ancora veramente consegnato a Cristo, che accetti di camminare verso un cambiamento, di mendicare la guarigione da certe ferite, la forza di grazia necessaria per correggermi. Apertamente: è altrettanto necessario che io viva la mia tensione alla conversione, esponendomi allo sguardo dei fratelli della casa e dei superiori che mi guidano, desiderando il loro giudizio come strumento della carità con cui Dio mi soccorre nella mia debolezza.
Solo così potremo veramente indicare la via di Cristo a coloro che incontriamo: se ne sperimentiamo in noi stessi la convenienza e possiamo dunque parlare non per sentito dire, ma in forza di qualcosa che viviamo. “Una delle cose di cui divento sempre più consapevole è che posso comunicare solo ciò che vivo” ha detto Stefano Lavelli nel suo intervento.
Pensando in particolare ai giovani: in noi devono trovare persone che stanno consegnando la loro vita a Cristo ora, cioè persone in cammino. Non dobbiamo avere paura del sacrificio che questo cammino comporta, e comporta fino alla fine. Per parlare veramente al cuore dei giovani e guidarlo verso Cristo, servono uomini attratti da lui oggi, dominati dal desiderio di somigliare a lui. Un rinnovamento autentico e profondo della vita della Chiesa non nascerà da piani pastorali generali né da nuovi codici di comportamento o protocolli di trasparenza, se questi non saranno strumenti nelle mani di uomini rinnovati, cioè che si lasciano rinnovare quotidianamente.

Il senso positivo della tradizione

Apro ora un’altra parte di questo intervento, nella quale voglio esporre la seconda delle condizioni per una rinascita della Chiesa tra i giovani che ho sopra annunciato: per essere strumenti della ripresa del senso di appartenenza alla Chiesa nel cuore dei giovani, è necessario che viviamo un senso positivo della tradizione. Solo così potremo infatti comunicarlo.
Sappiamo bene che attorno a certe parole negli ultimi decenni è dilagata una sensibilità nuova, che rende difficile sceverare il loro vero contenuto dall’onda emotiva che accompagna il loro semplice uso. Una di queste parole è proprio tradizione, che evoca oggi per lo più una sensazione di oppressione, di oscurità, di limite costrittivo oppure l’immagine di un insieme immutabile di regole e di dottrine che, di nuovo, sono sentite come ostacoli alla libera espressione, alla ricerca e alla gioia di vivere.
Da queste sensazioni può essere fortemente influenzata la riflessione di chi, anche dentro la Chiesa, cerca strade nuove. È dunque necessario riappropriarci di un senso positivo della tradizione, ritrovare uno sguardo fresco che ce ne faccia percepire la vera realtà.
Anticipo in sintesi le due notazioni che costituiscono il cuore di ciò che voglio comunicare: anzitutto propongo di riflettere sul fatto che la tradizione è un atto vivo di consegna, di trasmissione; propongo poi di considerare la tradizione come un gesto di amicizia; e, infine, come un tesoro prezioso del quale ci è stata consegnata la chiave.

La tradizione è un atto vivo di consegna

La tradizione non è in primo luogo un insieme di contenuti, come è spesso percepita. Non è perciò innanzitutto qualcosa che debba – o non debba, a seconda del punto di vista – essere ripetuto. Essa è l’atto vivo con cui ci è stato consegnato un modo di vivere e di intendere la vita da parte della generazione che ci ha preceduti, è l’atto con cui i padri riversano se stessi nei figli, i maestri nei discepoli. Tradizione, in questo senso, è un atto ampio e profondo di consegna di sé.
La tradizione è dunque un fenomeno che esprime l’uomo come tale, e in particolare la sua natura sociale. Ritroviamo infatti questo processo vivo di trasmissione in tutti i raggruppamenti umani animati dal conseguimento di uno scopo o fondati su un evento: dall’azienda che tramanda la sua cultura, come oggi si ama dire, a una comunità scientifica che educa le sue giovani leve nel paradigma conoscitivo che la identifica, a un reparto dell’esercito che perpetua il suo codice interno, a una tribù che si riconosce nella comunanza del sangue, fino a una nazione o a un popolo che fondano la propria identità in miti o fatti specifici. Più grande sarà il raggruppamento, più complesso e variegato il processo di trasmissione e il suo esito ma, nel piccolo come nel grande, è la stessa struttura antropologica che emerge in questo fenomeno [Cfr. Joseph Ratzinger, Il fondamento antropologico del concetto di tradizione, in: Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie, München 1982].
La Chiesa, che si riconosce come popolo nuovo attorno all’evento dell’Incarnazione, non fa eccezione e fa eccezione nello stesso tempo. Essa rivive infatti le normali dinamiche umane, informate dalla grazia che la fonda. L’esperienza di vita che trasmette contiene perciò una intelligenza della vita come tale, di se stessi e di Dio, che ha la sua origine negli eventi che Dio stesso ha posto come atti definitivi del suo dialogo con l’uomo. La Chiesa ha dunque iniziato spontaneamente la sua tradizione, mossa dallo stupore e dal senso di responsabilità verso il più significativo dei fatti accaduti: la presenza di Dio fatto uomo tra gli uomini.

È sempre entusiasmante guardare a quel primo, grande atto di tradizione che è il Nuovo Testamento, nel quale è condensato e conservato il processo con cui la prima generazione consegnò alla seconda il miracolo del suo incontro con il Dio fatto uomo, l’intelligenza della sua opera di redenzione attraverso la croce e la risurrezione, la certezza nella misericordia del Padre da lui rivelata e quindi la supplica indirizzata all’umanità intera perché ogni uomo volga lo sguardo a Cristo, Signore e Dio potente, Salvatore dell’uomo. L’entusiasmo, lo stupore e la forza propulsiva di questo annuncio sono caratteristiche evidenti di quella tradizione primigenia. Nel periodo di Pasqua abbiamo meditato, come accade ogni anno, gli Atti degli apostoli, che visualizzano anche geograficamente l’impeto esplosivo di quella propagazione dell’annuncio. Quali sono le caratteristiche di quella forza comunicativa, che oggi ci sembra di aver smarrito e che andiamo cercando? Provo a dare alcune risposte, che raduno attorno alle parole definitività e urgenza.
Se volgevano lo sguardo al mondo pagano, i primi cristiani trovavano in se stessi una coscienza viva della definitività dell’annuncio che avevano ricevuto, un annuncio che ai loro occhi superava per sempre ogni sapienza filosofica e umana in generale. Se poi guardavano al popolo ebraico, essi ritrovavano in sé la certezza di aver ricevuto una nuova rivelazione, la cui verità era ultimativa e di fronte alla quale ogni presagio precedente diventava come ombra e figura di ciò che si era compiuto. Persino la parola dei profeti, che pure avevano presentito l’avvento di Cristo, appare all’apostolo Pietro come lampada che brilla in un luogo oscuro finché non spunti il giorno (2Pt 1, 19) e Paolo conferma il suo sentire: ma ora […] la notte è avanzata, il giorno è vicino (Rm 13, 11-12).

A ciò dobbiamo aggiungere il senso di urgenza che caratterizzava quella prima generazione: il tempo si è fatto breve (1Cor 7, 29), scrive Paolo ai Corinti. Un’urgenza motivata dalla percezione dello svelarsi di un piano che era fin dal principio nascosto in Dio – mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi (Col 1, 26) –, e segnata dallo stupore di essere stati scelti per essere testimoni del suo avverarsi – poiché questo disegno eterno è stato attuato in Cristo Gesù (Ef 3, 11). I primi cristiani insomma erano uomini consapevoli di essere stati chiamati a vivere nel presente più decisivo della storia, percepito sia nella sua realtà oggettiva – come pienezza dei tempi (Ef 1, 10; Eb 9, 26) –, sia come chairòs in cui risuona un appello che decide le sorti di ogni uomo e di tutti i popoli: Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2Cor 6, 2) è il grido di Paolo ai Corinti.
Insomma, la straordinaria forza trainante di quel momento, come traspare da ogni pagina del Nuovo Testamento, fu la coscienza condivisa dai membri della Chiesa nascente di aver ricevuto un annuncio ultimativo, finale in senso proprio; fu l’esperienza, fatta da molti, di essere stati personalmente interpellati a dare una risposta eccezionale a quella che si presentava niente meno che come la fine dei tempi: d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero […]: perché passa la scena di questo mondo! (1Cor 7, 29-31). La radicalità di questo appello confluiva in un tutt’uno con la sua razionalità e ciò suscitava nei primi cristiani un senso vivissimo di gratitudine e un clima di letizia che li rendeva liberi da tutto: Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi […]. Il Signore è vicino! (Fil 4, 4); anche nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare (1Pt 4, 13).

Riflettiamo ora su questa domanda: perché la lettura del Nuovo Testamento risveglia in noi oggi un senso di gratitudine e di partecipazione ai fatti che vengono  narrati? Ciò accade perché anche noi abbiamo vissuto questo contatto vitale con la generazione dei credenti che ci ha preceduto. In forza della grazia che ha toccato la nostra vita, noi possiamo veramente capire ciò che ha vissuto la generazione che ha conosciuto gli apostoli.
Sono note a tutti le bellissime pagine in cui don Giussani ha fissato in noi per sempre una immagine positiva della tradizione:

«Giovanni e Andrea sono le fragili maschere – il segno – di qualcuno di potente […] che si documenta in loro; Egli si traduce identicamente, si documenta identicamente presente, nella loro testimonianza. E bisogna essere cattivi, nel senso letterale del termine, per non accettare di partire con una ipotesi positiva di fronte a questo avvenimento per cui milioni e milioni e milioni di persone sono trascinate in una nobiltà maggiore di vita e in una umanità più compiuta! Lui passa attraverso me, attraverso te, passa attraverso tutti coloro che ti danno questa testimonianza, come è passato da Andrea, da Giovanni, da Simone, alla moglie e alla madre, ai figli, ai fratelli, ai compagni di pesca, e poi agli altri, poi agli altri, e poi agli altri ancora. Ha passato il termine del primo secolo. È entrato nel secondo secolo. È stato comunicato ad altri nel secondo secolo e poi ad altri nel terzo secolo, e poi via via nella storia fino a mia madre, e mia madre lo ha detto a me. Questa è la concretezza terribile, divina: fuori di qui non c’è cristianesimo. È un avvenimento che si comunica attraverso altri avvenimenti che esso genera: si chiama “testimonianza”, la quale consiste in un modo di vita diverso – come parole, come morale, come atteggiamento, come generosità, come concezione di tutto.» [Luigi Giussani, La sfida della ragione: Dio e l’uomo moderno. In: Piero Bigongiari et al., La sfida della ragione, Guaraldi, Rimini 1996, p. 68].

«E mia madre lo ha detto a me!». Ecco in breve che cosa è la tradizione nella nostra vita: testimonianza e incontro. E che cosa ha fatto don Giussani se non riversare in noi la sua personale scoperta di Cristo, di «un altro mondo in questo mondo» [Luigi Giussani, Il tempo si fa breve, Milano 1994, p. 39], con tutto l’entusiasmo che gliene era nato dentro fin da quando era un giovanissimo seminarista a Venegono e con tutto il gusto per lo sviluppo della sua esigente consequenzialità?

La tradizione è un gesto di amicizia

Mi ha colpito la coincidenza tra questa descrizione della tradizione come atto vivo di comunicazione e la definizione di amicizia che lo stesso don Giussani ci ha offerto e sulla quale abbiamo meditato durante le vacanze di Corvara del 2015: «L’amicizia è un rovesciare la propria esistenza nella vita dell’altro» [Luigi Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2008, p. 102].
Ciò significa che possiamo guardare all’atto del tradere, che siamo chiamati a rivivere, come a un evento di amicizia. E lo è in realtà! È il più grande atto di amicizia che possiamo vivere verso l’uomo: dirgli che Cristo è venuto per lui, per salvarlo, per renderlo felice! Mostrargli la nostra vita cambiata e in cammino, piena di speranza e di una letizia che nessuno conosce, piena di una intelligenza della realtà e di un amore altrimenti impossibili, piena di pazienza, di vicinanza, di condivisione, di mitezza, ma anche di forza nelle avversità, di tenacia costruttiva, di trasparenza senza ingenuità, di laboriosità, di fedeltà, di chiarezza nel distinguere il vero dal falso, di coraggio nell’affermare il bene e nel combattere il male… tutti aspetti della vita dei cristiani che il mondo senza Cristo non conosce, perché non ha conosciuto lui (1Gv 3, 1).
Ma come potranno conoscerlo?, si chiede Paolo scrivendo ai Romani, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? (Rm 10, 14-15). Ecco il senso della nostra vita e della nostra vocazione: noi siamo stati inviati a mostrare la vita che Cristo dona all’uomo, per invitare tutti gli uomini a viverla con noi, per accogliere in essa chi ne rimanga colpito. Sappiamo che questa – ciò che chiamiamo incontro – è una grazia che rimane improducibile, ma sappiamo anche che possiamo chiedere incessantemente al Padre di concederla alle persone con cui veniamo in contatto e in particolare ai giovani, come diceva Marco Aleo nel suo intervento: “La domanda che accada il miracolo [… dell’incontro personale con Cristo] vorrebbe dar forma a tutto quello che proponiamo, a partire dai bambini, sia che giochiamo, sia che mangiamo, sia che cantiamo, sia che facciamo lezione”.
La missione è in sé un atto di amicizia, gratuito e fine a se stesso. Per questo la Lettera a Diogneto parla dei cristiani come dell’anima che abita il grande corpo dell’umanità. Un’anima incompresa e perfino odiata, a volte, ma essenziale principio di vita [Cfr. Lettera a Diogneto, VI, 1-6]. Vi ostacoleranno – ha predetto Gesù – perché non hanno conosciuto né il Padre né me (Gv 16, 2-3). La Chiesa, amante rifiutata, portatrice della vera consapevolezza e non capita, fraintesa, trattata come straniera, perseguitata, desidera solo il bene dell’uomo e lavora perché l’uomo riconosca Cristo e il Padre, fonte di ogni bene.
La tradizione è un gesto di amicizia e, in quanto tale, è qualcosa di sommamente positivo, bello, espressione di un moto di bene verso l’uomo solo e disperato che ci sta accanto, del desiderio che incontri Colui che ha attraversato la nostra strada e ci ha chiamato a condividere la sua vita.

La tradizione è un tesoro prezioso

Non possiamo però considerare la tradizione solo nel suo aspetto personale, come atto e rapporto tra persone vive che donano e ricevono. L’atto del donare e quello del ricevere presuppongono infatti un oggetto consegnato e accolto. C’è dunque anche un significato oggettivo del termine tradizione che dobbiamo re-imparare a cogliere nel suo valore positivo: quello della tradizione come traditum. Infatti non è sbagliato dire che la tradizione è anche un insieme di contenuti.
Chi è convinto che gli sia stato donato qualcosa di prezioso, tanto prezioso da fargli desiderare di trasmetterlo a chi verrà dopo di lui, innanzitutto fa in modo di custodire quel tesoro. Pensiamo al rapporto di un discepolo con il suo maestro: il desiderio di fissare il contenuto di ciò che ha ricevuto nasce in lui come un moto naturale, come senso di responsabilità che la scoperta stessa della verità genera in colui che la compie. Anche in questo caso è la nostra struttura antropologica fondamentale a fare di noi dei creatori di tradizione. Pur dichiarandosi avverso alla scrittura, Platone decise di fissare in qualche modo i suoi dialoghi con Socrate e le riflessioni che avevano originato in lui lungo l’arco della sua vita. Lo fece guardando ai suoi discepoli, alla generazione a venire, di cui avvertiva la responsabilità di fronte alla verità stessa che aveva contemplato. Le resistenze in parte superate del filosofo greco a consegnare allo scritto la vita del suo pensiero ci mostrano un’esperienza ambivalente, che rappresenta una costante dello spirito umano: in qualsiasi forma un uomo profondo fissi ciò che ha scoperto, capito, sperimentato, egli sente di non poterlo catturare totalmente e questo lo tenta a rinunciare; nondimeno, si sente invincibilmente spinto a fissare, con la maggiore accuratezza possibile, il contenuto di quell’evento di scoperta, perché avverte quell’atto come un dovere di servizio all’evento stesso, che esige di essere tramandato perché sia rivissuto e approfondito.
Come abbiamo già osservato, nella Chiesa ritroviamo le stesse dinamiche umane, assunte e trasfigurate nell’ordine della grazia. Ecco perché da subito sono stati concepiti e stesi i vangeli: per la responsabilità che gli apostoli hanno avvertito di fronte all’evento del loro incontro con Cristo. Per lo stesso senso di responsabilità, Paolo decise di scrivere delle lettere alle comunità che aveva fondato o che voleva visitare, e così altri tra gli apostoli: per condensare ciò che Gesù aveva vissuto con loro e aveva loro insegnato. Nello stesso tempo, essi ci hanno trasmesso il senso della trascendenza dell’evento che cercavano di fissare rispetto alle parole in cui tentavano di racchiuderlo: Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere (Gv 21, 25), annota l’evangelista Giovanni. E nella sua seconda lettera aggiunge significativamente: Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho voluto farlo per mezzo di carta e di inchiostro; ho speranza di venire da voi e di poter parlare a viva voce, perché la nostra gioia sia piena (2Gv 1, 12).

Il Nuovo Testamento, inteso come l’insieme dei libri canonici, è il risultato concreto di questa tensione a non perdere, a custodire, perché l’essenziale non venga smarrito o travisato nel passaggio. Per questo Paolo ammonisce il suo discepolo (la seconda generazione) con questa raccomandazione: Timoteo, custodisci il deposito (1Tim 6, 20). Per questo l’Apocalisse, l’ultimo libro del canone, si conclude con una serie di minacce rivolte a chi vi aggiungerà [o vi toglierà] qualche cosa (cfr. Ap 22, 18-20).
Il Nuovo Testamento esprime in questo modo la consapevolezza di essere un testo archetipo, testimonianza di quell’atto archetipo che fu la prima missione cristiana, la predicazione apostolica. All’oggetto di questa predicazione, a quello che chiamiamo il traditum, la Chiesa ha riconosciuto fin dalle origini il valore di fondamento sul quale costruire e, nello stesso tempo, di pietra di paragone permanente di ogni predicazione, di ogni atto di tradizione, criterio di verità, misura di fedeltà, fonte di certezza in ogni fase successiva della riscoperta-trasmissione dei contenuti della fede: […] ciascuno stia attento a come costruisce, avverte Paolo. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo (1Cor 3, 10-11). Egli è la pietra angolare (Ef 2, 20; 1Pt 2, 7).
Costruire su questo fondamento significa però rivivere l’atto di scoperta e di consegna dei primi e di coloro che li hanno seguiti nella catena della trasmissione. Così, tutte le generazioni hanno sentito il bisogno, in dialogo con i testi lasciati dalla prima, di lasciare a loro volta qualcosa di scritto. E non solo di scritto: opere d’arte, norme di vita, principi di organizzazione delle comunità, forme liturgiche, consuetudini, oggetti ed edifici di culto che sorsero non appena ci fu la libertà di costruirli… tutta questa eredità è frutto del lavoro dei cristiani che ci hanno preceduto, mossi dal desiderio di fissare in una forma che sentivano adeguata al loro tempo l’essenziale di quell’evento ultimamente ineffabile che aveva preso la loro vita, per celebrarlo e riviverlo in prima persona, e poi perché il cammino da loro percorso non rimanesse percorso invano, ma la generazione successiva potesse riprenderlo e intraprenderlo dal punto in cui erano arrivati.
Tradizione è dunque anche il frutto materiale di questo immenso e complesso gesto di responsabilità e di amicizia, con il quale i nostri padri vollero mettere nelle mani dei loro figli, con chiarezza e bellezza, ciò che avevano a loro volta ricevuto e riscoperto e rivissuto, così che anche i loro figli potessero di nuovo riscoprirlo per ridonarlo, rivivendolo con i loro figli e con i figli dei loro figli.
Ecco che cosa è la tradizione, anche nel suo aspetto oggettivo.

Un ultimo sguardo ai giovani

Che cosa succede laddove la comunicazione del sentimento della sacralità di questo depositum si interrompe? Esso diventa ingombro, orpello inutile, pesantezza, condizionamento negativo e gabbia, perché la  generazione che dovrebbe accogliere il tesoro che le si vorrebbe consegnare non è stata contagiata dallo stupore che deriva dalla fede sperimentata come evento di incontro.
Se non ho incontrato Cristo nel mio presente, che cosa mi potrà offrire la testimonianza di coloro che mi hanno preceduto? La loro vita e la loro opera è come un solco parallelo a quello della mia esistenza, un solco in cui io non cammino e che vedrò divaricarsi dal mio sempre più palesemente. Se non ho avuto la grazia di quell’incontro, se non sono stato toccato dall’acqua risanante di quella tradizione vivente, il cuore della avventura umana dei cristiani del passato mi è estraneo, il loro linguaggio e i loro interessi mi risultano oscuri. Ciò me li rende lontani e incomprensibili, si trattasse pure dei miei nonni, me li rende perfino nemici, esponenti di una realtà che di colpo mi appare come oppressiva, oscurantista, retrograda, nemica della libertà e della gioia. È infatti questo il sentimento predominante di una generazione che non si riconosce e non si sente più figlia della Chiesa, che non si identifica nell’appartenenza ad essa e perciò non riconosce il valore dell’eredità cristiana che ancora rimane materialmente a sua disposizione.
Ma se il mistero della libertà contiene in se stesso la possibilità del rifiuto, può anche riaprire in ogni momento quella di una nuova accoglienza. È questa consapevolezza che ci deve animare nel lavoro con i giovani. Dobbiamo guardarli come figli della Chiesa, come parte almeno potenziale di quel grande fiume che attraversa la storia dell’uomo. Ne sono parte forse ancora inconsapevole, ma proprio questa loro ignoranza, lungi dall’essere motivo di recriminazione, segnala l’ampiezza della nostra chiamata missionaria.
Tutto è iniziato così anche per don Giussani, come emerge dai suoi stessi ricordi:

«Dopo una decina d’anni di varie vicende, divenuto insegnante nello stesso seminario teologico [in cui avevo studiato], incontrai sul treno un gruppo di studenti e incominciai a discutere di cristianesimo con loro. Li trovai così estranei alle cose più elementari che mi venne come irrefrenabile impeto il desiderio di far conoscere loro quello che io avevo conosciuto». (Luigi Giussani, L’avvenimento cristiano, BUR, Milano 1993, pp. 34-35.)

Quell’impeto era così vero e profondo che ha raggiunto anche noi, ora sta a noi consegnare ad altri giovani le chiavi della stessa ricchezza. La fatica che ciò richiede è una dolce fatica.
A testimonianza di questo, voglio concludere con un ultimo brano della lettera di Lorenzo Locatelli che ho già citato, in cui è descritto l’albeggiare di questa nuova, sempre nuova, possibilità: “Mi ha commosso e confortato la posizione di due studentesse universi­tarie che erano al Sinodo con me” racconta Lorenzo.“Di fronte alle proposte anarchico-rivoluzionarie a cui assistevamo, si sono molto addolorate. Una di loro piangeva. Ho visto in queste due ragazze un frutto molto bello della nostra missione: l’amore alla Chiesa. Forse in questo momento è quello di cui c’è più bisogno, gente che ami la Chiesa. Con le sue ferite. Una di loro ha detto che, dopo aver partecipato al Sinodo, è cresciuto in lei l’amore alla Chiesa e l’affetto al vescovo. Da dove nasce questo sentimento?, ho chiesto loro durante l’ultima assemblea del gruppo degli universitari di Santiago. Hanno risposto di avere incontrato per la prima volta il volto universale della Chiesa. Hanno detto che questo volto è ferito, ma che molti chiedono una Chiesa come quella che loro, nel movimento, hanno incontrato”. Lorenzo riporta la loro conclusione: “Tutti chiedono di essere accompagnati a guardare quello che ci è successo [il riferimento è agli scandali], ma noi siamo accompagnati a guardare tutta la nostra vita alla luce di Cristo, dallo studio al rapporto con il fidanzato. Tutti chiedono che la proposta cristiana c’entri di più con la vita della società attuale, ma noi siamo aiutati a paragonare tutto con Cristo. Nel Sinodo abbiamo incontrato persone che avevano le nostre stesse domande ma nessuno con cui giocarle. Ci siamo accorte di quanto abbiamo ricevuto. Per sintetizzare, la Chiesa che tutti desiderano senza saperlo è la Chiesa così come noi l’abbiamo incontrata”.

Incontro con i sacerdoti della Fraternità san Carlo. Roma, 4 giugno 2018

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