Le lacrime che lavano la colpa

Come aiuto a vivere il tempo quaresimale, proponiamo una meditazione sul Venerdì Santo, in particolare sul racconto evangelico dell’arresto di Gesù e su due dei protagonisti che vivono due opposte esperienze, Giuda e Pietro.

Particolare del mosaico rappresentante l’arresto di Gesù, nella basilica di San Marco, a Venezia.

Di fronte agli avvenimenti del Venerdì Santo noi, come gli apostoli, rimaniamo a distanza, contemplando un evento troppo grande per la nostra capacità di comprensione e accettazione. C’è un’annotazione psicologica e spirituale, nel vangelo di Luca che ci rivela un dettaglio su Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre che più da vicino assistono all’agonia di Gesù: essi si assopiscono non solo e non tanto per la stanchezza, come sembrerebbe suggerire Marco (i loro occhi si erano appesantiti, Mc 14, 40), ma dormono per la tristezza (Lc 22, 45). È la medesima tristezza che affligge il Signore[1], ma che gli apostoli non possono ancora sopportare, per cui il sonno si caratterizza come fuga, ostacolo spirituale e difesa mentale dall’afflizione profonda che al Signore sta letteralmente costando il sangue. È ancora presto per bere il calice che Gesù sta bevendo (cfr. Mc 10, 48). Solo l’evento della Pasqua rende possibile rimanere con Lui fino alla fine. Il Venerdì Santo è un cammino dello sguardo dietro a Cristo; è anche una contemplazione delle gesta di coloro che più da vicino lo hanno seguito.
Prestiamo ora attenzione a due figure evangeliche, o meglio, al contrasto tra due figure che in maniera diversa si pongono di fronte al tema dell’obbedienza e della passione. Si tratta ovviamente di Pietro e Giuda Iscariota.

Le intenzioni di Pietro

Un piccolo flash back: nella notte del Giovedì Santo, dopo l’arresto di Gesù, tutti i discepoli erano scappati (Mt 26,56; Mc 14, 40). La dinamica è piuttosto chiara. Ciascuno di essi, confusamente, aveva nel cuore un’immagine di realizzazione della propria avventura umana. Evidentemente, l’arresto di Gesù non rientrava nei piani di nessuno dei Dodici. Sembra dunque che Pietro e gli altri fuggano terrorizzati di fronte al rovescio di sorte che capita alla loro compagnia.
Tuttavia, potrebbe sorgere una domanda. Durante l’ultima cena, Pietro ha chiaramente espresso la volontà di seguire Gesù: con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte (Lc 22, 33); anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai (Mt 22, 33); anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò (Mt 20, 35). Pietro ha compreso perfettamente quanto sta per accadere. Quando Gesù gli dice: dove io vado per ora tu non puoi seguirmi, non ha dubbi nell’affermare il suo desiderio di morire al fianco del Maestro. Pertanto, non può essere la sola paura di persecuzioni o morte a fermarlo.

Sappiamo che, nei momenti in cui la vita è messa a repentaglio, negli uomini si manifestano reazioni svariate, spesso incontrollate o impreviste. La disposizione d’animo che manifestiamo in tempi tranquilli può non corrispondere alla maniera con cui effettivamente rispondiamo a un pericolo o una situazione estrema. Non è però il caso di Pietro, che addirittura si lancia armato contro il distaccamento dei soldati inviati dai sommi sacerdoti e dagli anziani. Quanti erano? 600? 60? Ad ogni modo, un pescatore di Galilea, con una spada rabberciata chissà dove, non aveva molte possibilità contro un raggruppamento di soldati professionisti. Possiamo dunque dire che a Pietro il fegato non mancava. E allora?
La paura di Pietro può essere stata generata dall’avere capito che Gesù voleva andare fino in fondo, che era disposto a morire senza difendersi. A spaventarlo non sarebbe stata la circostanza sfavorevole, ma la rivelazione di tale estremo aspetto della personalità e della missione del Cristo.
Pietro Lo conosceva, Lo seguiva da tre anni, Lo aveva visto cavarsela in situazioni all’apparenza senza uscita. Lo aveva visto calmare i mari e i venti, moltiplicare il cibo, camminare sulle acque, sfuggire ad ogni tentativo di metterlo a morte, risuscitare persone defunte, trasfigurarsi nella gloria.
Quindi, sapeva bene che Gesù, volendo, avrebbe potuto mettersi in salvo anche in questa circostanza; a scanso di equivoci, lo stesso Signore ribadisce:

«Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve av­venire?». In quello stesso momento Gesù disse alla folla: «Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti». Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono (Mt 26, 53-56).

Uno che ha potere sulla natura, al quale anche il vento e il mare obbediscono, che nonostante ciò si consegna senza opporre la minima resistenza ai suoi aguzzini, oggettivamente fa paura. Pietro era pur pronto a dare la vita, ma non era pronto a questo. Non siamo forse presi anche noi da un certo orrore nel vedere una persona, la quale può sottrarsi alla persecuzione, che si sottopone alla sofferenza e alla morte?

Qui si svela un grande equivoco. In generale gli impeti di Pietro sono sempre da valorizzare, anche se spesso le sue intraprese non hanno un finale glorioso. Cionondimeno, in ogni situazione egli sa cogliere un punto fondamentale. Per questo anche le sue profuse offerte di solidarietà con le sorti del Signore sono da prendere sul serio. Tutti gli evangelisti riportano i sui accorati proclami nel corso dell’ultima cena. I sinottici sottolineano il suo desiderio di condividere la sorte di Gesù: anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò (Mt 26, 35; Mc 14, 31), con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte (Lc 22, 33).
Giovanni usa un’altra espressione: darò la mia vita per te (Gv 13, 37); letteralmente, “porrò la mia anima per te”. Il concetto è lo stesso ma vi è una sottolineatura diversa. Soprattutto, si tratta di una citazione: Pietro sta ripetendo le parole ascoltate dal Maestro, che ha detto il buon pastore pone la sua anima per le pecore (cfr. Gv 10, 11).

Davvero è lodevole il moto interiore di Pietro che vuole imitare il suo Signore. Forse è uno degli aspetti più belli della sua personalità e del suo ufficio di corifeo degli apostoli, vicario di Cristo. Pietro deve, è chiamato a imitare Gesù.

La profondità dell’offerta di sé

Ancora una volta lo slancio di Simone desta la nostra simpatia. Ma, come spesso accade, la sua azione ha un grave difetto, per cui si risolve in un niente di fatto, in una fuga di fronte alla sorte che aveva affermato di volere abbracciare.
C’è infatti un altro aspetto da sottolineare circa l’espressione “porre la propria anima per qualcuno”: essa può essere resa con la locuzione “rischiare la vita” oppure con “donare la vita”. Se un generico pastore può rischiare la vita, Gesù, Buon Pastore, invece, dà, dona la propria esistenza.
Le parole del Cristo riportate da Giovanni io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (Gv 10, 17-18) ci confermano che Egli “pone la Sua anima” nella seconda accezione: solo chi dispone pienamente di qualcosa può offrirla veramente[2].

Pietro ha ascoltato la parabola del buon pastore, ma non ne ha capito fino in fondo il contenuto. O forse non ha voluto capire. Sta di fatto che la sua interpretazione rimane legata al primo significato, rischiare la vita. Se leggiamo i sinottici, non sembra azzardato dire che l’intenzione di Pietro sia imitare il Signore, ma ad un livello più basso di quello che Gesù ha inteso proporre. Nessuno vuole mettere in questione l’amore dell’apostolo per il Maestro, ma forse si tratta di un’affezione ancora legata a un’immagine “romantica”, morir matando.
Nell’episodio dell’arresto, tale equivoco viene alla luce. Gesù non chiede un atto di eroismo ma una immedesimazione profonda con Se stesso, che Pietro non ha ancora compiuto. Egli ha il potere di dare la propria vita e di riprenderla, e sceglie liberamente di soffrire ed essere crocefisso. Pietro è pronto a morire, ma non accetta ancora la modalità che Dio ha scelto per lui.

Consideriamo ora l’atteggiamento di Gesù nei confronti di Giuda, sempre tenendo presente il tema dell’offerta di sé. L’Iscariota ha ormai gettato la maschera, è il traditore. Le parole di Gesù non lasciano dubbi, se mai ce ne fossero ancora. Pietro, Giovanni e Giacomo sono con Gesù quando questi viene raggiunto dalla plebaglia mandata ad arrestarlo. Gli apostoli avranno associato nella propria mente, e confrontato fra loro la scena dell’orribile tradimento di Giuda, da una parte, e, dall’altra, lo sguardo che Gesù, pur sapendo tutto, rivolge al traditore. Se non hanno potuto scorgere tale sguardo, data l’oscurità, almeno avranno fatto caso alle parole di affetto: “amico!”. Se pure le parole sono risultate inudibili, almeno saranno stati colpiti dal tono accogliente di Gesù. Ogni velleità di ricostruire il regno di Israele si schianta contro quella mansuetudine assolutamente fuori luogo.
C’è infine un dettaglio della scena che è davvero la goccia che fa traboccare il vaso: la guarigione del servo del sommo sacerdote. Il fatto che Pietro si avventi su di lui non desta particolari incomprensioni (al massimo ci si può chiedere perché non si scagli su Giuda), ma la guarigione di Malco non ha alcun senso in tale situazione: non serve a niente, non salva la vita a Gesù. Proviamo a pensare a che cosa significhi per i discepoli vedere compiere un miracolo in quel contesto. È un gesto talmente inutile che non può che essere divino, nel senso che è talmente privo di qualsiasi possibile retribuzione, talmente estraneo ad ogni logica utilitaristica che non può che ascriversi alla rivelazione del vero volto di Cristo: la carità fino all’amore per il nemico. Si aspettavano la legione di angeli, ed ecco che Gesù annichilisce ogni brama militaristica dei Dodici.

Dunque Gesù, secondo la logica della Lettera agli Ebrei, reso perfetto da ciò che sofferse, offrendo al Padre quella volontà per cui noi siamo stati santificati, sta entrando nel santuario celeste per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. Si trova insomma ad un altro livello, ancora inaccessibile per i suoi amici.

Pietro vs Giuda

Tornando al raffronto tra Pietro e Giuda, possiamo notare che, in quanto a condizioni esterne, i due sono in un certo senso “alla pari”. Entrambi hanno peccato, ma ciò era stato loro predetto da Gesù, il quale, in tale maniera, aveva aperto uno spiraglio per la misericordia: rivelando di sapere del loro tradimento, in qualche modo anticipa loro il perdono. Eppure, le linee di comportamento nel Venerdì Santo sono molto differenti, lo sappiamo. In cosa risiede la differenza? Proviamo a capire perché Pietro, pur uscendo di scena dopo le lacrime amare versate sul suo tradimento, resta saldo.
Sant’Ambrogio ci offre un’osservazione fondamentale e insuperabile sulle lacrime di Pietro:

«Buone sono le lacrime, che lavano la colpa. Piangono coloro che Gesù guarda. Pietro ha negato una prima volta e non ha pianto, perché il Signore non lo aveva guardato. Ha negato una seconda volta, e di nuovo non ha pianto, perché ancora il Signore non aveva rivolto il suo sguardo verso di lui. Nega una terza volta: Gesù lo guarda, ed egli pianse amaramente. […]
Anche tu, se vuoi meritare il perdono, cancella le tue colpe con le lacrime: in quel momento Cristo ti guarda. Se incappi in qualche colpa, egli, testimone presente di tutta la tua vita segreta, ti guarda per ricordarti l’errore e spingerti a confessarlo. Imita Pietro che, in altra circostanza, dice per tre volte:  “Signore, tu sai che ti amo” (Gv. 21, 15). Ha negato tre volte e tre volte confessa la sua fede. Ha rinnegato di notte, ma ha confessato in pieno giorno […]»[3].

Simone era rimasto scandalizzato dallo sguardo di amore rivolto al traditore. Egli si sentiva giusto per aver fatto la sua bella professione di fedeltà, ma adesso, sperimentata l’amara ricompensa dell’orgoglio, si trova a mendicare di essere guardato nello stesso modo.
È ciò che gli aveva predetto Gesù, dicendogli: E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli. Proprio perché ha fatto esperienza, può essere il primo.

«Insegnaci che cosa ti hanno giovato le tue lacrime. Ma già ce lo hai insegnato: infatti, prima di piangere eri caduto, e dopo le lacrime sei stato eletto per guidare gli altri, tu che prima non sapevi condurre te stesso»[4].

Tutto ciò non accade a Giuda. E si noti che anch’egli ha ricevuto lo sguardo misericordioso di Gesù. Possiamo solo accostarci al mistero del suo male. La sua figura desta un grande interrogativo nei cristiani di tutte le epoche. Gli stessi evangelisti non sanno bene come gestire l’eredità morale del suo tradimento. Giovanni sposa la tesi della filargiria, l’amore eccessivo per il denaro: era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro (Gv 12, 26). La liturgia bizantina riprende tale argomentazione in maniera quasi ossessiva, ma poi pone retoricamente a Giuda la domanda:

«Perché, se amavi la ricchezza, seguivi Colui che insegnava la povertà? Se invece amavi Lui, perché hai venduto Colui che é senza prezzo, consegnandolo alla follia omicida?»[5].

La pista indicata da Giovanni non tiene fino in fondo. Occorre pensare ad altro.
Non è proprio una fonte ortodossa, ma all’inizio del musical Jesus Christ Superstar abbiamo un suggerimento che potrebbe aiutarci a risolvere il mistero. Giuda apre la scena dicendo:

«Se strappi il mito dall’uomo vedrai dove presto saremo/ Gesù hai iniziato a credere le cose che dicono di Te/ pensi davvero che questa favola della divinità sia vera. […]
Tutto il bene che hai fatto sarà presto spazzato via/ hai iniziato a contare più delle cose che predichi».

Mi sembra un’ipotesi interessante: c’è uno scoglio sul quale la fedeltà di Pietro si è arenata, e lo stesso può essere accaduto a Giuda, che forse aveva semplicemente capito tutto ciò prima di Lui. Le loro immagini di compimento non corrispondevano per niente al piano di Gesù. Solo che in Giuda ciò si associa ad una grave mancanza di fede; forse ad un’assenza di carità.
Di certo, possiamo dire che il cedimento di Giuda al diavolo non accade una volta per tutte; si tratta di una caduta progressiva. Giovanni identifica due momenti[6] nell’ultima cena; Luca, un altro ancora all’inizio della settimana santa[7]. È un evento progressivo di rivolta, di chiusura, di ostinazione. Un abisso di ribellione che possiamo solo ipotizzare, accentuato paradossalmente dalla vicinanza a Gesù, che rivela i segreti dei nostri cuori.
Forse converrebbe ricostruire la lotta che accade nell’intimo di Giuda prestando attenzione ai gesti che egli compie. La grande differenza fra Pietro e l’Iscariota, relativamente alla condotta dopo il tradimento, è che Giuda prova a giustificarsi, Pietro, no.

Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente» (Mt 27, 3).

“Giuda si pentì”. È un’affermazione molto forte. Tuttavia, si tratta di un pentimento tragico, in primo luogo, perché egli chiede l’assoluzione ai suoi stessi complici, i sacerdoti, inefficaci nell’intercessione per i peccati e oltretutto profondamente corrotti. Ma non solo: il teatrino che si verifica perché nessuno vuole i trenta denari e, assieme ad essi, la responsabilità del sangue innocente di Gesù è una grottesca rappresentazione della vera essenza del problema. Le due parti si palleggiano la somma maledetta, finché viene trovata una soluzione che salvi le apparenze: si comprerà un campo (cfr. Mt 27, 7).
La tragedia consiste proprio nel rifiuto di essere associati a quel sangue che solo può salvarli.
Ironicamente, si tratta della stessa cecità che affligge il popolo di Gerusalemme che, di fronte a Pilato, invoca su di sé il sangue di Gesù (cfr. Mt 27, 25). Apparentemente la situazione è opposta, ma di fatto la dinamica è la medesima, nonostante l’apparente ammissione di colpa. I giudei pensano di essere nel giusto, possono pertanto invocare su di sé il sangue di Gesù, ma in realtà bluffano: sono sicuri che il loro gesto non avrà conseguenze. È arrivato il momento in cui tutti quelli che Lo perseguitano pensano così di rendere culto a Dio (cfr. Gv 16, 2).
Naturalmente, nessuno sta pensando di ridurre la problematica a una questione di nazionalità: non c’è più giudeo né greco, ma tutti siamo uno in Cristo Gesù nostro Signore (cfr. Gal 3, 28).
Il criterio che divide il mondo non è una qualsiasi appartenenza etnica, ma la risposta di fede che si dà o meno alla pretesa di Gesù Cristo di essere il Signore della storia. Come dice Giovanni Crisostomo, la maledizione che i Giudei invocano non è irrevocabile, in quanto:

«Un Dio misericordioso non ha ratificato questa sentenza, ma ha accettato molti dei Giudei. Paolo era uno di loro e molte migliaia di quelli che hanno creduto in Gerusalemme»,

In conclusione, non c’è differenza fra chi non vuole rispondere del sangue di Cristo (Giuda e i sacerdoti) e chi pensa di poterne invocare su di sé la maledizione, ritenendo di non essere colpevole (se Gesù fosse stato semplicemente un uomo, i giudei, uccidendolo, avrebbero semplicemente adempiuto la loro legge). Tutti mancano la questione cruciale.
Punto dirimente è la fede, la fede innanzitutto nella misericordia di Dio: abbiamo creduto nel suo amore.
Dice Nicola Cabasilas:

«Molti ostacoli possono opporsi alla nostra salvezza, ma il più grave consiste in questo: che dopo aver peccato non torniamo subito a Dio per chiedere perdono, ma pieni di vergogna e di timore pensiamo che Dio sia sdegnato e malcontento di noi e che occorra perciò una lunga preparazione se si vuole accedere a Lui. Ora, la considerazione dell’amicizia di Dio per gli uomini bandisce completamente dall’anima questo pensiero. Se tu sai con chiarezza quanto è dolce il Signore e che mentre ancora parli dirà: “Eccomi!”, che cosa ti può impedire di presentarti subito a lui, dopo aver peccato? […]
Ci sono dunque due tipi di dolore dei peccati: uno risolleva e l’altro rovina quelli che ne sono affetti; di entrambi abbiamo due chiari testimoni: il beato Pietro, per il primo e il miserabile Giuda per il secondo.
In Pietro il dolore custodì la buona volontà, ed egli, col suo pianto amaro, non fu meno unito a Cristo di quanto non lo fosse prima di peccare contro di Lui. Invece il dolore di Giuda lo spinse ad impiccarsi, ed egli se ne andò carico di catene nel tempo della comune liberazione; mentre era effuso il sangue che purifica l’universo, lui solo disperò di essere purificato.
[…] Il peccato dunque ci rende cattivi di fronte a Dio e di fronte a noi stessi; ma, mentre il dolore per la nostra ingratitudine verso il Signore non ci porterà alcun danno e anzi ci sarà molto utile, non così accadrà se, dopo esserci fatti un’eccellente opinione di noi stessi, vedendola poi distrutta dai nostri peccati ne saremo afflitti e abbattuti e ci tortureremo il cuore con amaro rimpianto, come se non si potesse più vivere una volta caduti con tali colpe. Questa tristezza deve essere fuggita,  perché è evidente che genera la morte, come la stima eccessiva di noi stessi; mentre l’altra nasce dall’amore per il Signore, dal riconoscere chiaramente il nostro benefattore, e dal sapere che non solo non gli diamo nulla di tutto ciò che tutti gli dovremmo, ma che anzi ne ricompensiamo i benefici con le nostre malvagità.
Dunque, come l’orgoglio è un male, così anche il dolore nato nell’anima per orgoglio. Al contrario, come è infinitamente degno di lode l’amore per Cristo, così nulla procura maggiore beatitudine agli uomini di retto sentire quanto l’affliggersi e struggersi l’anima, feriti dai dardi di un tale amore[8].

Chiudiamo con una preghiera della liturgia bizantina.
«Presentiamo i nostri sensi purificati al Cristo e, in quanto Suoi amici, poniamo le nostre anime per Lui. Fa’ che non siamo soffocati dalle preoccupazioni mondane, al pari di Giuda, ma che, nelle nostre celle, gridiamo: “Padre nostro, liberaci dal male”»[9].

(Ritiro del Venerdì Santo in Casa di formazione, 10 aprile 2020)

Di fronte agli avvenimenti del Venerdì Santo noi, come gli apostoli, rimaniamo a distanza, contemplando un evento troppo grande per la nostra capacità di comprensione e accettazione. C’è un’annotazione psicologica e spirituale, nel vangelo di Luca che ci rivela un dettaglio su Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre che più da vicino assistono all’agonia di Gesù: essi si assopiscono non solo e non tanto per la stanchezza, come sembrerebbe suggerire Marco (i loro occhi si erano appesantiti, Mc 14, 40), ma dormono per la tristezza (Lc 22, 45). È la medesima tristezza che affligge il Signore[1], ma che gli apostoli non possono ancora sopportare, per cui il sonno si caratterizza come fuga, ostacolo spirituale e difesa mentale dall’afflizione profonda che al Signore sta letteralmente costando il sangue. È ancora presto per bere il calice che Gesù sta bevendo (cfr. Mc 10, 48). Solo l’evento della Pasqua rende possibile rimanere con Lui fino alla fine. Il Venerdì Santo è un cammino dello sguardo dietro a Cristo; è anche una contemplazione delle gesta di coloro che più da vicino lo hanno seguito.
Prestiamo ora attenzione a due figure evangeliche, o meglio, al contrasto tra due figure che in maniera diversa si pongono di fronte al tema dell’obbedienza e della passione. Si tratta ovviamente di Pietro e Giuda Iscariota.

Le intenzioni di Pietro
Un piccolo flash back: nella notte del Giovedì Santo, dopo l’arresto di Gesù, tutti i discepoli erano scappati (Mt 26,56; Mc 14, 40). La dinamica è piuttosto chiara. Ciascuno di essi, confusamente, aveva nel cuore un’immagine di realizzazione della propria avventura umana. Evidentemente, l’arresto di Gesù non rientrava nei piani di nessuno dei Dodici. Sembra dunque che Pietro e gli altri fuggano terrorizzati di fronte al rovescio di sorte che capita alla loro compagnia.
Tuttavia, potrebbe sorgere una domanda. Durante l’ultima cena, Pietro ha chiaramente espresso la volontà di seguire Gesù: con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte (Lc 22, 33); anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai (Mt 22, 33); anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò (Mt 20, 35). Pietro ha compreso perfettamente quanto sta per accadere. Quando Gesù gli dice: dove io vado per ora tu non puoi seguirmi, non ha dubbi nell’affermare il suo desiderio di morire al fianco del Maestro. Pertanto, non può essere la sola paura di persecuzioni o morte a fermarlo.
Sappiamo che, nei momenti in cui la vita è messa a repentaglio, negli uomini si manifestano reazioni svariate, spesso incontrollate o impreviste. La disposizione d’animo che manifestiamo in tempi tranquilli può non corrispondere alla maniera con cui effettivamente rispondiamo a un pericolo o una situazione estrema. Non è però il caso di Pietro, che addirittura si lancia armato contro il distaccamento dei soldati inviati dai sommi sacerdoti e dagli anziani. Quanti erano? 600? 60? Ad ogni modo, un pescatore di Galilea, con una spada rabberciata chissà dove, non aveva molte possibilità contro un raggruppamento di soldati professionisti. Possiamo dunque dire che a Pietro il fegato non mancava. E allora?
La paura di Pietro può essere stata generata dall’avere capito che Gesù voleva andare fino in fondo, che era disposto a morire senza difendersi. A spaventarlo non sarebbe stata la circostanza sfavorevole, ma la rivelazione di tale estremo aspetto della personalità e della missione del Cristo.
Pietro Lo conosceva, Lo seguiva da tre anni, Lo aveva visto cavarsela in situazioni all’apparenza senza uscita. Lo aveva visto calmare i mari e i venti, moltiplicare il cibo, camminare sulle acque, sfuggire ad ogni tentativo di metterlo a morte, risuscitare persone defunte, trasfigurarsi nella gloria.
Quindi, sapeva bene che Gesù, volendo, avrebbe potuto mettersi in salvo anche in questa circostanza; a scanso di equivoci, lo stesso Signore ribadisce:

«Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve av­venire?». In quello stesso momento Gesù disse alla folla: «Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti». Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono (Mt 26, 53-56).

Uno che ha potere sulla natura, al quale anche il vento e il mare obbediscono, che nonostante ciò si consegna senza opporre la minima resistenza ai suoi aguzzini, oggettivamente fa paura. Pietro era pur pronto a dare la vita, ma non era pronto a questo. Non siamo forse presi anche noi da un certo orrore nel vedere una persona, la quale può sottrarsi alla persecuzione, che si sottopone alla sofferenza e alla morte?
Qui si svela un grande equivoco. In generale gli impeti di Pietro sono sempre da valorizzare, anche se spesso le sue intraprese non hanno un finale glorioso. Cionondimeno, in ogni situazione egli sa cogliere un punto fondamentale. Per questo anche le sue profuse offerte di solidarietà con le sorti del Signore sono da prendere sul serio. Tutti gli evangelisti riportano i sui accorati proclami nel corso dell’ultima cena. I sinottici sottolineano il suo desiderio di condividere la sorte di Gesù: anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò (Mt 26, 35; Mc 14, 31), con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte (Lc 22, 33).
Giovanni usa un’altra espressione: darò la mia vita per te (Gv 13, 37); letteralmente, “porrò la mia anima per te”. Il concetto è lo stesso ma vi è una sottolineatura diversa. Soprattutto, si tratta di una citazione: Pietro sta ripetendo le parole ascoltate dal Maestro, che ha detto il buon pastore pone la sua anima per le pecore (cfr. Gv 10, 11).
Davvero è lodevole il moto interiore di Pietro che vuole imitare il suo Signore. Forse è uno degli aspetti più belli della sua personalità e del suo ufficio di corifeo degli apostoli, vicario di Cristo. Pietro deve, è chiamato a imitare Gesù.

La profondità dell’offerta di sé
Ancora una volta lo slancio di Simone desta la nostra simpatia. Ma, come spesso accade, la sua azione ha un grave difetto, per cui si risolve in un niente di fatto, in una fuga di fronte alla sorte che aveva affermato di volere abbracciare.
C’è infatti un altro aspetto da sottolineare circa l’espressione “porre la propria anima per qualcuno”: essa può essere resa con la locuzione “rischiare la vita” oppure con “donare la vita”. Se un generico pastore può rischiare la vita, Gesù, Buon Pastore, invece, dà, dona la propria esistenza.
Le parole del Cristo riportate da Giovanni io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo (Gv 10, 17-18) ci confermano che Egli “pone la Sua anima” nella seconda accezione: solo chi dispone pienamente di qualcosa può offrirla veramente[2].
Pietro ha ascoltato la parabola del buon pastore, ma non ne ha capito fino in fondo il contenuto. O forse non ha voluto capire. Sta di fatto che la sua interpretazione rimane legata al primo significato, rischiare la vita. Se leggiamo i sinottici, non sembra azzardato dire che l’intenzione di Pietro sia imitare il Signore, ma ad un livello più basso di quello che Gesù ha inteso proporre. Nessuno vuole mettere in questione l’amore dell’apostolo per il Maestro, ma forse si tratta di un’affezione ancora legata a un’immagine “romantica”, morir matando.
Nell’episodio dell’arresto, tale equivoco viene alla luce. Gesù non chiede un atto di eroismo ma una immedesimazione profonda con Se stesso, che Pietro non ha ancora compiuto. Egli ha il potere di dare la propria vita e di riprenderla, e sceglie liberamente di soffrire ed essere crocefisso. Pietro è pronto a morire, ma non accetta ancora la modalità che Dio ha scelto per lui.
Consideriamo ora l’atteggiamento di Gesù nei confronti di Giuda, sempre tenendo presente il tema dell’offerta di sé. L’Iscariota ha ormai gettato la maschera, è il traditore. Le parole di Gesù non lasciano dubbi, se mai ce ne fossero ancora. Pietro, Giovanni e Giacomo sono con Gesù quando questi viene raggiunto dalla plebaglia mandata ad arrestarlo. Gli apostoli avranno associato nella propria mente, e confrontato fra loro la scena dell’orribile tradimento di Giuda, da una parte, e, dall’altra, lo sguardo che Gesù, pur sapendo tutto, rivolge al traditore. Se non hanno potuto scorgere tale sguardo, data l’oscurità, almeno avranno fatto caso alle parole di affetto: “amico!”. Se pure le parole sono risultate inudibili, almeno saranno stati colpiti dal tono accogliente di Gesù. Ogni velleità di ricostruire il regno di Israele si schianta contro quella mansuetudine assolutamente fuori luogo.
C’è infine un dettaglio della scena che è davvero la goccia che fa traboccare il vaso: la guarigione del servo del sommo sacerdote. Il fatto che Pietro si avventi su di lui non desta particolari incomprensioni (al massimo ci si può chiedere perché non si scagli su Giuda), ma la guarigione di Malco non ha alcun senso in tale situazione: non serve a niente, non salva la vita a Gesù. Proviamo a pensare a che cosa significhi per i discepoli vedere compiere un miracolo in quel contesto. È un gesto talmente inutile che non può che essere divino, nel senso che è talmente privo di qualsiasi possibile retribuzione, talmente estraneo ad ogni logica utilitaristica che non può che ascriversi alla rivelazione del vero volto di Cristo: la carità fino all’amore per il nemico. Si aspettavano la legione di angeli, ed ecco che Gesù annichilisce ogni brama militaristica dei Dodici.
Dunque Gesù, secondo la logica della Lettera agli Ebrei, reso perfetto da ciò che sofferse, offrendo al Padre quella volontà per cui noi siamo stati santificati, sta entrando nel santuario celeste per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. Si trova insomma ad un altro livello, ancora inaccessibile per i suoi amici.

Pietro vs Giuda
Tornando al raffronto tra Pietro e Giuda, possiamo notare che, in quanto a condizioni esterne, i due sono in un certo senso “alla pari”. Entrambi hanno peccato, ma ciò era stato loro predetto da Gesù, il quale, in tale maniera, aveva aperto uno spiraglio per la misericordia: rivelando di sapere del loro tradimento, in qualche modo anticipa loro il perdono. Eppure, le linee di comportamento nel Venerdì Santo sono molto differenti, lo sappiamo. In cosa risiede la differenza? Proviamo a capire perché Pietro, pur uscendo di scena dopo le lacrime amare versate sul suo tradimento, resta saldo.
Sant’Ambrogio ci offre un’osservazione fondamentale e insuperabile sulle lacrime di Pietro:

«Buone sono le lacrime, che lavano la colpa. Piangono coloro che Gesù guarda. Pietro ha negato una prima volta e non ha pianto, perché il Signore non lo aveva guardato. Ha negato una seconda volta, e di nuovo non ha pianto, perché ancora il Signore non aveva rivolto il suo sguardo verso di lui. Nega una terza volta: Gesù lo guarda, ed egli pianse amaramente. […]
Anche tu, se vuoi meritare il perdono, cancella le tue colpe con le lacrime: in quel momento Cristo ti guarda. Se incappi in qualche colpa, egli, testimone presente di tutta la tua vita segreta, ti guarda per ricordarti l’errore e spingerti a confessarlo. Imita Pietro che, in altra circostanza, dice per tre volte:  “Signore, tu sai che ti amo” (Gv. 21, 15). Ha negato tre volte e tre volte confessa la sua fede. Ha rinnegato di notte, ma ha confessato in pieno giorno […]»[3].

Simone era rimasto scandalizzato dallo sguardo di amore rivolto al traditore. Egli si sentiva giusto per aver fatto la sua bella professione di fedeltà, ma adesso, sperimentata l’amara ricompensa dell’orgoglio, si trova a mendicare di essere guardato nello stesso modo.
È ciò che gli aveva predetto Gesù, dicendogli: E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli. Proprio perché ha fatto esperienza, può essere il primo.

«Insegnaci che cosa ti hanno giovato le tue lacrime. Ma già ce lo hai insegnato: infatti, prima di piangere eri caduto, e dopo le lacrime sei stato eletto per guidare gli altri, tu che prima non sapevi condurre te stesso»[4].

Tutto ciò non accade a Giuda. E si noti che anch’egli ha ricevuto lo sguardo misericordioso di Gesù. Possiamo solo accostarci al mistero del suo male. La sua figura desta un grande interrogativo nei cristiani di tutte le epoche. Gli stessi evangelisti non sanno bene come gestire l’eredità morale del suo tradimento. Giovanni sposa la tesi della filargiria, l’amore eccessivo per il denaro: era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro (Gv 12, 26). La liturgia bizantina riprende tale argomentazione in maniera quasi ossessiva, ma poi pone retoricamente a Giuda la domanda:

«Perché, se amavi la ricchezza, seguivi Colui che insegnava la povertà? Se invece amavi Lui, perché hai venduto Colui che é senza prezzo, consegnandolo alla follia omicida?»[5].

La pista indicata da Giovanni non tiene fino in fondo. Occorre pensare ad altro.
Non è proprio una fonte ortodossa, ma all’inizio del musical Jesus Christ Superstar abbiamo un suggerimento che potrebbe aiutarci a risolvere il mistero. Giuda apre la scena dicendo:

«Se strappi il mito dall’uomo vedrai dove presto saremo/ Gesù hai iniziato a credere le cose che dicono di Te/ pensi davvero che questa favola della divinità sia vera. […]
Tutto il bene che hai fatto sarà presto spazzato via/ hai iniziato a contare più delle cose che predichi».

Mi sembra un’ipotesi interessante: c’è uno scoglio sul quale la fedeltà di Pietro si è arenata, e lo stesso può essere accaduto a Giuda, che forse aveva semplicemente capito tutto ciò prima di Lui. Le loro immagini di compimento non corrispondevano per niente al piano di Gesù. Solo che in Giuda ciò si associa ad una grave mancanza di fede; forse ad un’assenza di carità.
Di certo, possiamo dire che il cedimento di Giuda al diavolo non accade una volta per tutte; si tratta di una caduta progressiva. Giovanni identifica due momenti[6] nell’ultima cena; Luca, un altro ancora all’inizio della settimana santa[7]. È un evento progressivo di rivolta, di chiusura, di ostinazione. Un abisso di ribellione che possiamo solo ipotizzare, accentuato paradossalmente dalla vicinanza a Gesù, che rivela i segreti dei nostri cuori.
Forse converrebbe ricostruire la lotta che accade nell’intimo di Giuda prestando attenzione ai gesti che egli compie. La grande differenza fra Pietro e l’Iscariota, relativamente alla condotta dopo il tradimento, è che Giuda prova a giustificarsi, Pietro, no.

Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente» (Mt 27, 3).

“Giuda si pentì”. È un’affermazione molto forte. Tuttavia, si tratta di un pentimento tragico, in primo luogo, perché egli chiede l’assoluzione ai suoi stessi complici, i sacerdoti, inefficaci nell’intercessione per i peccati e oltretutto profondamente corrotti. Ma non solo: il teatrino che si verifica perché nessuno vuole i trenta denari e, assieme ad essi, la responsabilità del sangue innocente di Gesù è una grottesca rappresentazione della vera essenza del problema. Le due parti si palleggiano la somma maledetta, finché viene trovata una soluzione che salvi le apparenze: si comprerà un campo (cfr. Mt 27, 7).
La tragedia consiste proprio nel rifiuto di essere associati a quel sangue che solo può salvarli.
Ironicamente, si tratta della stessa cecità che affligge il popolo di Gerusalemme che, di fronte a Pilato, invoca su di sé il sangue di Gesù (cfr. Mt 27, 25). Apparentemente la situazione è opposta, ma di fatto la dinamica è la medesima, nonostante l’apparente ammissione di colpa. I giudei pensano di essere nel giusto, possono pertanto invocare su di sé il sangue di Gesù, ma in realtà bluffano: sono sicuri che il loro gesto non avrà conseguenze. È arrivato il momento in cui tutti quelli che Lo perseguitano pensano così di rendere culto a Dio (cfr. Gv 16, 2).
Naturalmente, nessuno sta pensando di ridurre la problematica a una questione di nazionalità: non c’è più giudeo né greco, ma tutti siamo uno in Cristo Gesù nostro Signore (cfr. Gal 3, 28).
Il criterio che divide il mondo non è una qualsiasi appartenenza etnica, ma la risposta di fede che si dà o meno alla pretesa di Gesù Cristo di essere il Signore della storia. Come dice Giovanni Crisostomo, la maledizione che i Giudei invocano non è irrevocabile, in quanto:

«Un Dio misericordioso non ha ratificato questa sentenza, ma ha accettato molti dei Giudei. Paolo era uno di loro e molte migliaia di quelli che hanno creduto in Gerusalemme»,

In conclusione, non c’è differenza fra chi non vuole rispondere del sangue di Cristo (Giuda e i sacerdoti) e chi pensa di poterne invocare su di sé la maledizione, ritenendo di non essere colpevole (se Gesù fosse stato semplicemente un uomo, i giudei, uccidendolo, avrebbero semplicemente adempiuto la loro legge). Tutti mancano la questione cruciale.
Punto dirimente è la fede, la fede innanzitutto nella misericordia di Dio: abbiamo creduto nel suo amore.
Dice Nicola Cabasilas:

«Molti ostacoli possono opporsi alla nostra salvezza, ma il più grave consiste in questo: che dopo aver peccato non torniamo subito a Dio per chiedere perdono, ma pieni di vergogna e di timore pensiamo che Dio sia sdegnato e malcontento di noi e che occorra perciò una lunga preparazione se si vuole accedere a Lui. Ora, la considerazione dell’amicizia di Dio per gli uomini bandisce completamente dall’anima questo pensiero. Se tu sai con chiarezza quanto è dolce il Signore e che mentre ancora parli dirà: “Eccomi!”, che cosa ti può impedire di presentarti subito a lui, dopo aver peccato? […]
Ci sono dunque due tipi di dolore dei peccati: uno risolleva e l’altro rovina quelli che ne sono affetti; di entrambi abbiamo due chiari testimoni: il beato Pietro, per il primo e il miserabile Giuda per il secondo.
In Pietro il dolore custodì la buona volontà, ed egli, col suo pianto amaro, non fu meno unito a Cristo di quanto non lo fosse prima di peccare contro di Lui. Invece il dolore di Giuda lo spinse ad impiccarsi, ed egli se ne andò carico di catene nel tempo della comune liberazione; mentre era effuso il sangue che purifica l’universo, lui solo disperò di essere purificato.
[…] Il peccato dunque ci rende cattivi di fronte a Dio e di fronte a noi stessi; ma, mentre il dolore per la nostra ingratitudine verso il Signore non ci porterà alcun danno e anzi ci sarà molto utile, non così accadrà se, dopo esserci fatti un’eccellente opinione di noi stessi, vedendola poi distrutta dai nostri peccati ne saremo afflitti e abbattuti e ci tortureremo il cuore con amaro rimpianto, come se non si potesse più vivere una volta caduti con tali colpe. Questa tristezza deve essere fuggita,  perché è evidente che genera la morte, come la stima eccessiva di noi stessi; mentre l’altra nasce dall’amore per il Signore, dal riconoscere chiaramente il nostro benefattore, e dal sapere che non solo non gli diamo nulla di tutto ciò che tutti gli dovremmo, ma che anzi ne ricompensiamo i benefici con le nostre malvagità.
Dunque, come l’orgoglio è un male, così anche il dolore nato nell’anima per orgoglio. Al contrario, come è infinitamente degno di lode l’amore per Cristo, così nulla procura maggiore beatitudine agli uomini di retto sentire quanto l’affliggersi e struggersi l’anima, feriti dai dardi di un tale amore[8].

Chiudiamo con una preghiera della liturgia bizantina.
«Presentiamo i nostri sensi purificati al Cristo e, in quanto Suoi amici, poniamo le nostre anime per Lui. Fa’ che non siamo soffocati dalle preoccupazioni mondane, al pari di Giuda, ma che, nelle nostre celle, gridiamo: “Padre nostro, liberaci dal male”»[9].

(Ritiro del Venerdì Santo in Casa di formazione, 10 aprile 2020)

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[1]  «E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”» (Mt. 26, 37-38).

[2]  Cfr. Kittel, GLNT, vol. X, coll 1119s.

[3]  Ambrogio, Expositio evangelii secundum Lucam, X, 88-90.

[4]  Ambrogio, Expositio evangelii secundum Lucam, X, 91-92.

[5] Liturgia bizantina, Lodi del Santo e Grande Giovedì.

[6]  «Già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo» (Gv 13, 2); «E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui» (Gv 13, 27).

[7]  «Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici» (Lc 22, 3).

[8]    N. Cabasilas, Vita in Cristo, 652b, 652c; 653a; 653b; 653c.

[9] Liturgia bizantina, Ufficio della Passione.

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