Sarà perché è la piazza più grande di Roma, sarà per il celebre mercato o per l’orchestra multietnica, ma piazza Vittorio è stata raccontata dal cinema in mille modi. È ora di raccontare anche le tante storie legate alla chiesa di Sant’Eusebio, si è detto il parroco, don Gianalessandro Bonicalzi. Incastrata in uno degli angoli più belli della piazza, monumento dei primi secoli del cristianesimo, convento dei Celestini e poi centro dei Gesuiti, la parrocchia che lui dirige da dodici anni ne ha compiuti 130 nel 2020. Così, don Sandro ha pensato di festeggiarlo, questo secolo e passa. Una faticaccia ma la motivazione è forte: “Un gesto di gratitudine, di ringraziamento, per un luogo dove noi (e altri) abbiamo potuto vivere la fede e testimoniarla, a volte anche in maniera grande, eroica, particolare”.
Oggi don Sandro vive nella canonica della chiesa con don Paolo Buscaroli, viceparroco e insegnante di Religione, e don Massimiliano Boiardi, che lavora in Vaticano nella Segreteria di Stato ed è cerimoniere di papa Francesco. Quando arriva qui come parroco, nel 2009, dopo 25 anni passati in Calabria e gli altri a Roma, economo della Fraternità san Carlo, scopre che alla chiesa di Sant’Eusebio fanno riferimento in tanti: “Entro e vedo alcune suore che pregano in gruppo davanti a un crocefisso. Sono le Poverelle di Bergamo e il crocifisso è quello del fondatore, il beato Palazzolo”. Poi, incontra dei sacerdoti inglesi devoti al cardinale Newman, che qui faceva gli esercizi spirituali. Da Sant’Eusebio negli anni ’40 era partita anche Maria Bordoni, oggi Venerabile, per fondare l’opera Mater Dei. E ancora, don Terenzi, fondatore del santuario del Divino Amore, era viceparroco della chiesa dove la Venerabile Nennolina, Antonietta di Meo, faceva riferimento per la direzione spirituale. “Tutto questo mi ha interrogato” dice Bonicalzi. “C’era una storia di fede che faceva a pugni con lo stato di degrado in cui si trovava la chiesa”.
Non è cosa di oggi, la condizione di abbandono in cui versa uno dei quartieri più multietnici del centro di Roma. Due libri pubblicati per le celebrazioni raccontano la storia dei sei parroci di Sant’Eusebio e della chiesa. “Il primo parroco scrive addirittura che, dopo le otto di sera, a piazza Vittorio bisognava andare in giro con il coltello o con la pistola” racconta don Sandro. Quando lui arriva, trova una comunità viva ma anche un gran disordine: “Erano tante le persone senza fissa dimora che affollavano il portico della chiesa”. La parrocchia conta tremila anime: un terzo di loro sono italiani, gli altri vengono soprattutto da Cina e Bangladesh. “II primo impatto è stato di curiosità e di domanda, di attenzione. La diversità è una ricchezza, a patto che ci sia estrema libertà. Il fatto che i musulmani ci invitino a mangiare all’inizio e alla fine del ramadan è un dono. Quando abbiamo ricordato don Giussani, ad esempio, sono venuti e mi hanno regalato un Corano in italiano”. Ride del paradosso, don Sandro. Poi torna con la memoria a chi gli ha “ribaltato la vita” a 16 anni. “Nell’anno della maturità, don Giussani mi disse che il problema non era che cosa uno vuole fare ma che cosa il Signore gli chiede. Mi si è aperto un mondo”. Di lui, Bonicalzi ricorda soprattutto la grande accoglienza: “C’erano questa sua libertà e la capacità di fidarsi. Non so che cosa apprezzasse di me. Di sicuro, gli piaceva il fatto che non mi fermassi troppo sulle cose negative, che fossi sempre disposto a ricominciare”.
Libertà e pazienza: sono le doti richieste anche a un prete in missione a Sant’Eusebio. È un po’ il filo che lega le celebrazioni. Oltre ai libri e ad una mostra su san Pietro da Morrone, quel papa Celestino V che Dante nella Commedia indica come colui che fece «il gran rifiuto», la parrocchia organizza un incontro dove un imprenditore cinese, uno del Bangladesh e un pakistano sikh raccontano la loro storia. Ad introdurli, un’intervista a Eleonora, una ragazza di 93 anni che dal ’34 ha vissuto e insegnato nel quartiere. “Dal punto di vista della solidarietà, Roma è incredibile” dice don Bonicalzi. E sembra davvero stupito per quel cesto messo in chiesa ogni settimana, così colmo da riempire i 30, 40 pacchi mensili per i poveri della parrocchia, quasi raddoppiati con il lockdown. “Una caratteristica che ricorre in questi 130 anni è proprio la capacità di affrontare le difficoltà, di condividere il bisogno”.
Difficile dare conto di tutte le iniziative che, programmate per durare da settembre a novembre, debordano per il Covid nell’anno nuovo. Ma c’è almeno una cosa bella da raccontare ancora: “Abbiamo chiesto alla Penitenzieria apostolica la possibilità di lucrare l’indulgenza plenaria visitando la chiesa. Ci ha davvero stupito che i nostri ragazzi siano venuti tutti. Non sapevano neanche cosa fosse, però hanno fatto questo percorso, insieme alle Missionarie di san Carlo che da anni ci accompagnano nella missione e che ci hanno sempre dato fiducia”. Soprattutto, insieme a don Paolino: “Il fatto che la San Carlo lo abbia mandato qui come viceparroco è stato veramente un segno di attenzione grande. La sua compagnia mi colpisce perché anche lui è molto libero, desideroso di incontrare, capace di stare davanti alle situazioni difficili senza spaventarsi”. Eccolo, don Paolo Buscaroli detto Paolino. A quasi sessant’anni, ha ancora il volto tondo che doveva avere da bambino, in quel di Imola, una faccia di quelle che fanno pensare ai dispetti e all’innocenza. Per raccontarmi il mondo visto dai ragazzini, don Paolo comincia da una storia. “Una sera vado a mangiare la pizza con dei ragazzi. Uno di loro dice: «Mi colpisce che un sacerdote stia con i giovani». Purtroppo è vero: sono laici l’80, il 90% dei professori di Religione. Sembra che i sacerdoti non si vogliano coinvolgere più di tanto. Quel ragazzo era rimasto colpito nel vedere un prete che dedica le giornate ai giovani”. E invece don Paolo, proprio per incontrarli, entra nella loro realtà, a scuola e in parrocchia.
Un’esperienza – racconta – che non ti fa stare mai tranquillo. “Sei sempre provocato a testimoniare quello che dà allegria alla tua vita. Prendi le lezioni DAD, a distanza. Avevo una classe nuova, terza scientifico. Alle prime due lezioni non si è collegato nessuno. Ho mandato una mail, mi hanno risposto: «Padre, l’anno scorso il professore di Religione non si collegava mai. Pensavamo che anche lei…». Va bene, non sto lì a giudicarlo ma io mi collego. O meglio, ci provo. Dopo venti minuti, mi dico: saranno andati via. Erano tutti lì che mi aspettavano. Li ho ringraziati, il tempo di dire una preghiera ed era già l’una. La lezione è finita. Avevano tutte le ragioni per dire: il prof è vecchio, sarà morto o andato chissà dove. E invece, mi avevano aspettato”.
Così nasce anche il Centro estivo, in una Roma dove d’estate si svuotano le strade: qualche ragazzino che capita in parrocchia, un prete ostinato, una scommessa vinta. “Abbiamo iniziato nel maggio 2013 con alcuni ragazzi, da allora continuiamo: adesso sono una cinquantina. L’abbiamo fatto anche l’anno scorso, in piena pandemia. I genitori sono rimasti sorpresi ma nessuno si è lamentato, nessuno si è ammalato”. Facile capire che cosa trova qui un bambino: “Un abbraccio, la certezza che nella vita c’è una grande presenza che ti vuole bene. Noi facciamo questo”. Niente di più, niente di meno di quanto accadeva quando don Paolo era in missione in Cile o in Paraguay: “Quello che cercano là, lo cercano anche qua. Ma adesso scappo che ho un funerale. Ciao, cuore in alto e preghiere!”.
(Nella foto, Paolo Buscaroli (al centro) con alcuni ragazzi della parrocchia e i seminaristi.)