Sono cinquanta le ragazze e i ragazzi detenuti all’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo, nella periferia di Roma. È con loro che, insieme a David, un seminarista, trascorro due giorni alla settimana. Sono ragazzi molto giovani, di età compresa tra i quattordici e i ventuno anni, ma i loro occhi e i loro volti rivelano una vita già vissuta. La maggior parte di loro è straniera: si tratta di rom, rumeni, albanesi, bosniaci, giovani provenienti dalla zona del Magreb. Solamente un piccolo numero è italiano. Attualmente la maggior parte è di religione musulmana. Alcuni sono in carcere per la prima volta, altri invece sono “ospiti abituali”, periodicamente attesi dalle guardie.
Ci rechiamo lì innanzitutto per stare con loro. È un incontro molto diretto, come una discesa nella mischia. Entriamo nelle palazzine dove i ragazzi trascorrono la loro ora d’aria pomeridiana tra il calcio balilla e qualche sigaretta, oppure nel campetto per giocare a pallone. A volte capita che non facciano caso alla nostra presenza, presi dai loro pensieri, dalla fatica e dalla rabbia che sembrano avere il sopravvento. Altre volte invece iniziano a raccontare come sono arrivati lì, a causa di piccoli furti, spaccio, omicidio.
L’unicità della persona
In me l’eco del male, della provvisorietà, dell’abbandono, della ribellione, della sfiducia che incontro in tanti di loro suscita sempre un riverbero molto profondo. Quel luogo sembra lontano da ogni speranza. I ragazzi più grandi, in particolare, hanno spesso un atteggiamento strafottente, di sfida e di accusa. Le ore che trascorro con loro sono sempre ore passate sotto il fuoco nemico. Mi mettono davanti agli occhi le loro ferite, il loro dramma che quasi sempre è prima di tutto un disagio familiare: qualcuno non ha più i genitori perché sono morti ed è cresciuto con la nonna, qualcun altro è stato abbandonato fin dalla più tenera età.
Tra i ragazzi c’è una diffusa rassegnazione al fatto che non cambieranno mai. È vero: la realtà non è per niente facile. Eppure ho scoperto che la loro vita è una perla preziosa. È un po’ avvolta dal fango, ma con il tempo posso vederla riemergere e brillare. Sto imparando che la loro speranza può rinascere, anche sotto cumuli di macerie, quando si sentono amati gratuitamente, ascoltati, guardati per il semplice fatto che esistono. Forse, per la prima volta in vita loro. La speranza rinasce perché ciascun ragazzo ha un valore infinito e incommensurabile che nessun delitto può scalfire. Non c’è sbaglio in grado di distruggere l’unicità di ogni persona. È questa unicità che mi fa sperare, anche contro ogni speranza, perché il Signore ha dato la sua vita ed è morto per ognuno di loro e anche per me. È sempre possibile ricominciare perché Dio per primo ricomincia sempre.
Chi non abbandona
Ho imparato tutto ciò soprattutto con Antonio (nome di fantasia), non ancora maggiorenne, lasciato solo dalla madre quando aveva tre anni e dal padre che si ritrova in carcere. In uno dei primi dialoghi mi ha confidato che, una volta uscito, avrebbe ucciso sua madre per averlo abbandonato. Dopo un primo momento di sconcerto, mi sono fatto raccontare la sua storia, fino alla telefonata che aveva ricevuto da lei qualche giorno prima, dopo anni in cui non si era più fatta viva, e in cui gli diceva che voleva rincontrarlo. «Che cosa risolveresti uccidendo? Non pensi alle conseguenze? A quanti anni di detenzione riceverai e che li sconterai nel carcere degli adulti? Non pensi che forse perdonare è l’atto più grande che puoi fare?». Quel giorno ci siamo lasciati proprio con questa parola: «perdono». «Comunque, pensa a ciò che ci siamo detti». Qualche settimana dopo, senza che nel frattempo fossimo ritornati sull’argomento, mi ha chiesto di dargli un rosario. «Questo lo regalerò a mia madre che ho sentito per telefono, dicendole che avrei desiderato rivederla. Ho pensato alle cose che mi hai detto».
Antonio era uno dei tanti detenuti che aveva iniziato anche a incidersi profonde ferite nelle braccia. Un giorno gli ho detto che non avrebbe più dovuto tagliarsi perché doveva iniziare a volersi bene. Mi ha risposto che, se non avesse fatto del male a se stesso, lo avrebbe fatto agli altri. «Allora fammi questa promessa: da oggi non ti taglierai più perché ti voglio bene. Fallo per me». Nei mesi successivi, regolarmente, Antonio si accostava, tirava su le maniche del maglione, mostrava le braccia e mi diceva: «Padre, padre, vedi che non mi taglio più! Tu sei stato la prima persona in vita mia che mi ha detto che mi vuole bene».
Ora Antonio è arrivato in una delle tante case-famiglia per il reinserimento nella società e per la sua educazione. Con lui ho imparato che vale la pena essere presenti nel carcere, spendersi, farsi carico del peso delle accuse e degli insulti, stare davanti al dramma che ogni ragazzo vive, anche solo per il cambiamento di uno di loro. Il prete deve essere lì: con la sua presenza fisica, per l’abito che indossa, egli afferma che, anche se tutti hanno abbandonato questi ragazzi, c’è ancora uno che non lo ha fatto e non lo farà: Dio stesso.
(Foto Elio Ciol – Tutti i diritti riservati)