Chi ha visitato il Duomo di Parma non può certo dimenticare il bassorilievo di Benedetto Antelami situato sulla parete del transetto di destra della basilica, raffigurante una delle “deposizioni” più famose della storia dell’arte. Quando, ormai quasi vent’anni fa, dovevo scegliere un’immagine che rimanesse a ricordo del giorno della mia ordinazione sacerdotale, scelsi un particolare di quella scultura. Si tratta proprio della parte centrale, quella in cui il corpo di Cristo viene staccato dalla Croce da parte di Giuseppe d’Arimatea, figura che, nel tempo, mi ha sempre più affascinato.
Di lui si apprezza, innanzitutto, il coraggio con cui si espone personalmente e va da Pilato a chiedere che gli venga consegnato quel corpo per deporlo nella tomba che aveva preparato per sé. Fa parte della vocazione di ogni cristiano il compito di testimoniare la propria appartenenza a Cristo facendosi carico anche delle possibili conseguenze che questo comporta.
In questi giorni penso spesso alla testimonianza del vescovo del Nicaragua, Rolando Alvarez, che, per il coraggio con cui si è posto a difesa della Chiesa e del popolo nicaraguensi, è stato condannato a 26 anni di prigione (che per lui potrebbe significare morire in carcere) dal regime mascherato da democrazia guidato da Daniel Ortega.
Quello stesso coraggio, anche se in forma differente, è richiesto a ciascuno di noi, preti e laici: il coraggio di difendere la nostra fede e la libertà di poterla affermare in ogni luogo e in ogni Paese. E il coraggio della fedeltà alla propria vocazione, a dispetto delle nostre fragilità e delle nostre cadute.
Quello stesso coraggio, anche se in forma differente, è richiesto a ciascuno di noi, preti e laici: il coraggio di difendere la nostra fede e la libertà di poterla affermare in ogni luogo e in ogni Paese.
Ma di Giuseppe ho sempre trovato bellissimo soprattutto quell’abbraccio tra la sua persona e il corpo di Gesù, così plasticamente scolpito dall’Antelami. Che cosa avrà provato nel caricarsi sulle spalle quel peso morto? È un po’ come quando portiamo in braccio qualcuno che dorme, un figlio, per esempio, o un amico che si è infortunato su un campo da calcio, o un altro che è un po’ brillo, al termine di una serata di festa tra amici… quando ci capita, sentiamo tutto il peso del corpo di quella persona su di noi. La stessa cosa deve aver provato Giuseppe quel giorno: ha sentito tutto il peso dell’umanità di Gesù su di sé. È come se Cristo gliela avesse affidata, poggiandosi volutamente su di lui.
In questo consiste il compito del prete: Cristo ti affida tutta la sua umanità da abbracciare e portare su di te. La sua umanità è innanzitutto la tua, con le tue pesantezze e le tue doti, con i tuoi tanti peccati e le tue poche virtù. Ma la sua umanità è anche la Chiesa, sono i corpi, i volti, i pregi, i difetti, la santità, i peccati non solo tuoi, ma anche quelli dei tuoi fratelli, delle persone che incontri e di quelle che non conosci. Tutto questo Cristo ci affida, appoggiandosi su di noi. Ma questo non riguarda solo la vocazione del prete: la stessa esperienza è, in realtà, quella a cui è chiamato ogni cristiano.
C’è un’altra opera d’arte che, nell’immaginario collettivo, è strettamente legata al tempo di Pasqua: quella caravaggesca dell’apostolo Tommaso, che infila il suo dito nella piaga aperta nel costato di Gesù.
Gesù è risorto. Eppure, nel suo corpo glorioso, le piaghe sono lì, ben visibili, tanto da poterle toccare. Quel corpo è lo stesso corpo di prima, con ancora i segni delle sue ferite. Quel corpo siamo noi, è la Chiesa, in cui la Risurrezione, l’esperienza della creatura nuova convive con le ferite, convive con i peccati, convive con la sporcizia dei nostri piedi. Ma è un corpo vivo, non morto! È un corpo risorto che è destinato a non morire più e che, nonostante le ferite, le persecuzioni, i peccati nostri e altrui, è testimonianza di una umanità rinata, di una vita risorta.
Questo è ciò che il mondo si attende di vedere nella Chiesa e nelle vite di chi ne fa parte. Questo è anche ciò che la gente vuole vedere nella nostra Fraternità e nelle nostre case e che vediamo noi, nelle comunità che, per grazia, nascono là dove siamo mandati. E tutto ciò è, già, qui ed ora, un anticipo di Paradiso.