“Prof, ma è vero che un giorno resusciteremo? Prof, ma l’inferno esiste? Come funziona la storia dell’Apocalisse?”.
Sono tante le domande dei miei studenti. Qualcuno di loro, prendendomi un po’ in giro, si avvicina e mi chiede di pregare perché quel giorno ha un esame difficile. Quando gli domando se ha studiato e lo informo che può chiedere da solo a Dio quello che vuole, lui ribatte dicendo che sicuramente ascolta di più me, perché sono un prete e perché lui ha smesso di pregare tanti anni fa. Gli sorrido e in silenzio lo affido alla Madonna.
Questi sono gli alunni della scuola dove insegno da poco più di un anno: il Colegio Fuenlabrada. Due anni fa, nel bel mezzo di un campeggio estivo, don Tommaso mi aveva detto che la scuola vicino alla parrocchia stava cercando un professore di Religione e ci aveva chiamato… È stato uno di quei momenti della vita in cui ho capito che il Signore mi stava chiedendo qualcosa, di fidarmi di Lui e andare oltre le possibili mie obiezioni. L’idea di essere professore non rientrava nei miei piani, ma come è già successo molte volte, quando cedo e smetto di lottare scopro la pace e la certezza che Dio può darti quando accetti la sua volontà, persino nel sacrificio. Il primo settembre 2019 ho iniziato quindi questa avventura.
Da dieci anni in quella scuola non entrava un prete: il primo giorno molti mi guardavano incuriositi, soprattutto i colleghi professori: chi sarà mai quell’uomo vestito di nero?
Per la prima volta nella vita, ho provato cosa vuol dire il pregiudizio: alcuni facevano fatica a parlarmi o a salutarmi, solo per il fatto che ero un sacerdote. Mi ha aiutato non rinunciare mai all’abito sacerdotale. Non nascondo che, soprattutto i primi giorni, ho avuto la tentazione di non metterlo. Ma il clergy mi aiuta ad affermare chi sono e perché sono qui, in Spagna. Il solo fatto di essere vestito da prete costringe professori e ragazzi a pensare, anche solo per un secondo, a Dio. Ciò che mi dà pace, e mi permette di stare in un ambiente indifferente, o apparentemente indifferente alla religione, è il fatto di essere mandato e il desiderio enorme di poter incontrare i ragazzi.
Dopo solo un anno, posso dire con immensa gratitudine che Dio ha iniziato a farmi vedere i suoi frutti: alcuni dei miei alunni stanno cominciando a venire in parrocchia; lentamente, molto lentamente, si stanno riavvicinando a Dio. Ma il frutto più bello sta nascendo in me: stare in un ambiente totalmente impregnato dalla mentalità del mondo mi aiuta ogni giorno a dare le ragioni della mia fede e di quello che propongo ai miei alunni. Mi permette di conoscerli nei loro ambienti e mi obbliga a cercare strade per incontrarli, perché Dio possa raggiungerli. I ragazzi non hanno smesso di credere in Dio o nella Chiesa perché lo hanno deciso o perché hanno vere ragioni; semplicemente, noi adulti abbiamo smesso di proporre loro la fede in una forma attraente e convincente. Quello che mi chiedono, anche senza dirmelo, è di dare loro qualcosa di vero, di vivo, qualcosa che sia importante per me.
Spesso, quando entro in classe, mi commuovo pensando che dietro questi ragazzi, ognuno con la maschera che ha deciso di indossare, si nasconde il desiderio di incontrare il significato della loro vita frenetica. È questo ciò che ci unisce, per questo sono lì con loro.
L’uomo vestito di nero
Educare la fede dei ragazzi è uno compiti più importanti della nostra missione: testimonianza da Fuenlabrada.