Essere sacerdote vuol dire accompagnare le persone anche nelle circostanze più dolorose, a volte anche con un pizzico di coraggio. Un racconto dalla Colombia.

Un paio di settimane fa, Erika e Juan si sono presentati nel pomeriggio alla segreteria della parrocchia, cercando un sacerdote per amministrare l’unzione degli infermi al padre di lei, malato di cancro e ricoverato in fin di vita. Prima di arrivare da noi, alla parrocchia di Las Aguas a Bogotá, i due erano già passati in altre dieci parrocchie, senza trovare un prete che fosse disponibile.
Anch’io in quel momento ero impegnato. Stavo uscendo per andare a incontrare un amico che attraversa un periodo difficile. Dopo avere provato senza successo a spostare l’appuntamento, ho promesso ad Erika e Juan che avrei cercato di contattare i miei confratelli, nella speranza che uno di loro potesse andare ad amministrare l’unzione. Ho chiamato ma nessuno poteva accompagnarli. L’impossibilità di rispondere al bisogno di quella famiglia mi ha fatto provare un grande dolore. Ho pensato che tutto quello che potevo fare era pregare san Giuseppe e mettere tutto nelle sue mani.
Dopo il mio appuntamento, ho contattato di nuovo Erika e Juan, nella speranza che non fosse tardi. Per grazia di Dio non lo era, così sono tornato di corsa alla parrocchia per prendere l’olio santo e tutto il necessario. Pochi minuti dopo, sono venuti a prendermi per portarmi all’Istituto cancerologico di Bogotá dove era ricoverato Santiago, il padre di Erika.
Lungo la strada, mi hanno raccontato le peripezie affrontate quel giorno per trovare un sacerdote e mi hanno detto che Santiago aveva già avuto un tumore quattro anni prima. Ora era tornato in forma molto più aggressiva.
Quando siamo arrivati all’ospedale, abbiamo trovato ad attenderci un gruppo di quaranta, forse cinquanta persone, familiari e amici venuti a tenere compagnia alla moglie e ai figli di Santiago. Dopo essermi presentato alla famiglia, ho provato ad entrare ma gli infermieri mi hanno detto che dovevo attendere almeno mezz’ora, prima di incontrare Santiago. Nell’attesa, ho proposto a tutti di recitare un rosario, chiedendo che si compisse la volontà di Dio, che Santiago potesse raggiungere la festa celeste nella casa del Padre e che Maria lo accompagnasse in questa ultima tappa della vita.
Quando ci hanno lasciati entrare, ci siamo ritrovati in un lungo corridoio, con i letti dei malati allineati sui lati fino a coprirne l’intera lunghezza. Percorrendolo, ho visto gli occhi di molti malati volgersi verso di me e illuminarsi, come riconoscendo un segno di speranza in mezzo a quella sofferenza. Quando finalmente abbiamo trovato il letto di Santiago, un infermiere ci ha interrotto per dirci che dovevano trasferirlo subito in un altro corridoio. L’operazione avrebbe richiesto del tempo, almeno un’ora. Di fronte a queste circostanze drammatiche, ero cosciente che Gesù aveva l’urgenza di abbracciare Santiago e gli altri uomini sofferenti che si trovavano intorno a noi. Ho deciso così di rischiare, iniziando all’improvviso e a voce alta la celebrazione del sacramento, in modo che tutti potessero ascoltare. La moglie di Santiago mi ha accompagnato rispondendo alle orazioni, poi ho unto il marito con l’olio santo. Infine, ho consegnato al Padre tutti quegli uomini e le loro famiglie.
Il giorno dopo, quando mi sono svegliato, ho trovato un messaggio di Erika sul mio telefono: “Padre, grazie infinite di avere accompagnato mio padre e noi in questo momento difficile. Santiago è morto due ore dopo l’unzione e ora è in cielo”. Ho iniziato la giornata ringraziando Dio per la certezza nella vittoria della sua resurrezione e per l’abbraccio alla mia vita che in questa circostanza avevo sperimentato.

John Roderick è cappellano del Colegio Gimnasio Moderno e viceparroco di Nuestra Señora de las Aguas a Bogotá (Colombia). Nella foto, un momento della caritativa con i bambini della parrocchia.

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