Don Emanuele Angiola ci racconta la sua missione a Taipei tra i suoi studenti di Italiano

«Prof, come mi chiamo?». Spesso gli studenti di italiano dell’Università Cattolica Fu Jen di Taipei mi fanno questa domanda. In quel desiderio di essere chiamati per nome vedo il loro anelito a sentirsi unici, speciali. Ed esserlo per qualcuno. Ho tanti studenti. Quest’anno, tra tutti i corsi che tengo, dovrei averne circa 130. Ogni tanto penso che la mia prima missione sia imparare i loro nomi, per lo meno quelli italiani, scelti al momento di iniziare il corso. In classe faccio l’appello personalmente, senza delegarlo all’assistente, guardando i ragazzi in faccia e scambiando con loro qualche battuta, soprattutto se li vedo particolarmente stanchi o diversi dal solito. Negli intervalli provo a conoscerli di più: «Dove vivi? Cosa ti piace fare? Chi sono i tuoi amici?». Dietro il nome c’è sempre un volto, una storia. Mi commuove vedere che gli studenti vengono a cercarmi semplicemente per condividere ciò che succede loro, dalla vittoria nella partita di pallavolo al nuovo lavoro part-time. Mi colpisce inoltre come alcuni, non cattolici, decidano spontaneamente di affrontare con me problemi personali di cui non hanno mai parlato a nessuno, come l’aborto o gravi problemi in famiglia.

A volte, quando la sera faccio tardi per correggere gli esami o cercare del materiale per le lezioni, mi sorprendo a pensare: «Ma io sono un prete, cosa c’entrano il congiuntivo e i dittonghi con la mia vocazione di missionario?». Allora mi ricordo che testimoniare Cristo significa innanzitutto mostrare ai miei studenti che la vita è una cosa seria, con le sue responsabilità e i suoi impegni. Essere superficiali toglie valore alla vita, prendere sul serio le cose da fare è cominciare a prendere sul serio se stessi. Per questo mi preparo con dedizione e passione e pretendo anche da loro serietà e impegno. Lo scorso semestre ho assegnato come compito a casa agli studenti del secondo anno la composizione di un testo. Dal momento che una mia studentessa, Michelle, ha il ragazzo italiano, ho detto preventivamente a tutti: «Questo lavoro scrivetelo voi, non i vostri fidanzati italiani!». Quando mi sono messo a correggere quello di Michelle, solare taiwanese cresciuta in Sudafrica, mi sono accorto subito che era in un italiano perfetto. Irritato, volevo darle zero. Poi però ci ho ripensato, perché non volevo semplicemente cedere al sentimento del momento e così ho deciso di darle una seconda possibilità. L’indomani, all’inizio della lezione, ho consegnato il compito a tutti. Arrivato davanti a Michelle, le ho detto: «Nell’intervallo dobbiamo parlarne». Suonata la campanella, è subito venuta alla cattedra un po’ timorosa. «Chi ha scritto questo?», le ho chiesto mostrandole il suo elaborato: . «Io…». Allora ho insistito: «Michelle, non prendermi in giro». «Cioè… l’ho scritto io. Poi l’ho fatto vedere al mio ragazzo che forse ha cambiato qualcosa». Davanti alla sua parziale ammissione, le ho detto: «Dovrei darti zero, ma siccome so che non scrivi male, rifai il tema da sola per la settimana prossima su un altro argomento». Non se l’aspettava. Ha poi scritto il compito di suo pugno, ma un po’ troppo in fretta, tanto che ho dovuto metterle un voto comunque molto basso.

La storia però non finisce qui. Un giorno, in mensa, sento chiamarmi in italiano. È Carmelo, il ragazzo siciliano di Michelle. Mi chiede scusa per l’accaduto, dicendomi di non sapersi spiegare perché lei sia sempre così insicura, tanto da cercare un aiuto anche quando non ne ha bisogno. Scuse accettate, è un bravo ragazzo. Il sabato seguente, uscendo dall’università incrocio per caso proprio Michelle. Nonostante io sia già in ritardo per un altro impegno, mi fermo e, dopo i saluti di rito, le chiedo a bruciapelo: «Ma tu sei felice?». Domanda strana, anche perché lei ha sempre il sorriso stampato sul volto. Dopo alcuni istanti di silenzio, finalmente mi risponde: «No, anche se rido sempre non sono per niente felice, ho dentro di me una tristezza continua».

Così è iniziato un dialogo. Finalmente Michelle ha potuto aprirsi e, partendo da problemi e difficoltà, ha cominciato a guardare a se stessa, fino ai desideri e alle speranze che più la costituiscono.

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