Nella memoria di don Roberto Amoruso è vivo il ricordo della beata di Calcutta. La povertà e l’abbraccio dei bisognosi, questa l’eredità del suo carisma a tutta la Chiesa.

Era il 1979, avevo quindici anni. Non sapevo nulla di Madre Teresa, ma incontrai due delle sue suore a Milano. Cercavano «i più poveri fra i poveri» e questa espressione, che sentivo per la prima volta, mi colpì. Cominciai a chiedermi chi fossero, questi poveri, e dove si trovassero. Il mio compito era solo quello di rimettere in ordine una casa, renderla abitabile per quelle suore, ma ricordo che passai in rassegna, mentalmente, tutti i barboni che conoscevo.
Passarono alcuni anni, entrai in seminario a Roma e iniziai una caritativa alla casa delle suore di Madre Teresa che Giovanni Paolo II aveva voluto proprio in Vaticano. Anche in quell’occasione fui colpito dall’attenzione che queste suore avevano per i bisognosi e per Colui che aveva sete di amore attraverso di loro.
Un giorno, bussando al convento, mi aprì la porta Madre Teresa stessa. Sorpreso, la salutai e parlammo per cinque minuti della vocazione. Così come mi è capitato per don Giussani, sperimentai il fascino immenso dell’incontro con l’origine di un carisma: un dono suscitato dallo Spirito Santo che ripropone una modalità, insieme vecchia e nuova, di essere presente in tante persone. L’incontro può durare cinque minuti o tutta la vita, ma rimane nel cambiamento che opera. L’impressione di quel pomeriggio è ancora vivida oggi: rivedo una donna innamorata di Qualcuno che aveva conquistato il suo cuore, ma che la faceva soffrire sia con la sua assenza sia con la sua presenza.
Andai missionario a Nairobi e anche lì, in una baraccopoli non lontana dalla nostra parrocchia, c’è una casa dove le suore accolgono i bisognosi: malati di Aids, matti, bambini appena nati e lasciati davanti al loro cancello o trovati nella spazzatura ancora vivi. Ci andavo, ogni venerdì, di solito con dei giovani, e ogni volta l’incontro si ripeteva, come un insegnante che decide di accompagnare l’alunno e volergli bene anche attraverso altri studenti.
Madre Teresa mi ha comunicato il profondo desiderio di una Presenza vista e amata nella persona che abbiamo davanti, in qualsiasi condizione si trovi. Mi ha mostrato il significato della povertà e le strade per riconoscere quella materiale e quella spirituale o mentale. Entrando nelle cappelle o chiese dove le suore pregano c’è una scritta, a sinistra del crocifisso: «I thirst», ho sete. Pian piano, guardare Gesù e questa sua frase mi ha educato.
Una delle due suore che avevo incontrato nel ‘79 a Milano, sr. Rio, dopo pochi giorni era partita per il Sudamerica. Sei anni più tardi, venne a stare a Roma per un anno e divenne per me un importante punto di riferimento. Quando ripartì per il Sudamerica, andai all’aeroporto a salutarla e la vidi con il suo sari e la solita borsa blu. Le chiesi dove fosse il resto del bagaglio. Mi rispose che aveva tutto in quella borsa: un altro sari e il breviario. Ci salutammo. Lo stupore e la semplicità di quell’abbandono a Dio mi accompagna ancora oggi.
Più di dieci anni dopo, ero ormai in Africa. Un giorno la superiora della casa mi chiamò e mi fece una sorpresa: sr. Rio era a Nairobi per alcuni giorni, prima di iniziare una nuova missione in Sudan. Le suore si stavano avventurando sulle Nuba Mountains, dove nessuno aveva ancora annunziato il Vangelo.

 

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