“Il mio piano per i giorni di vacanza era quello di vedere tutte le partite del mondiale, ma mi sono fidato e ne è valsa la pena”. “Mi hanno chiesto: perché siamo qui? Io non so rispondere bene a questa domanda, ma so che qui c’è qualcosa in più”. “Voglio una vita grande anche se apparentemente sembra normale. Como posso fare perché la mia vita diventi grande?” “È stata una convivenza molto bella quella di questi giorni, ma se c’è una cosa di cui mi pento è di non essermi offerta volontario per pulire il bagno. Quando ho visto con che faccia sono tornati quelli che gli hanno puliti ho capito che mi ero persa qualcosa”.
Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di passare quattro giorni nella Sierra di Madrid, insieme ai “Cavalieri”, un gruppo di adolescenti tra i 12-14 anni cui proponiamo di vivere un’esperienza di fede e amicizia. Quelle che ho elencato all’inizio sono alcune delle cose che hanno detto i ragazzi durante l’assemblea dell’ultimo giorno.
Durante la convivenza mi sono domandato molte volte quando e in che modo fiorirà il seme che Dio, attraverso di me, dei miei fratelli e degli amici che mi accompagnano in questa avventura meravigliosa, ha piantato nella vita di questi ragazzi, che conosco da quando avevano otto anni. Altre volte invece mi sono trovato a guardarli in maniera superficiale, pensando che non stessero capendo niente di quello che gli proponevamo; che fossero distratti o che, in fondo, non gli importasse nulla di quello che ascoltavano. Davanti ai loro interventi nell’assemblea finale mi sono dovuto ricredere. Il Signore, alla fine, trova sempre un modo per zittirmi e correggere il modo superficiale con cui li guardo.
A volte, noi padri ci dimentichiamo che il nostro unico compito è quello di fare in modo che i ragazzi possano conoscere il loro vero Padre. Dentro questa dinamica anche noi, che viviamo spesso distratti e convinti che ormai siamo autonomi, ci riavviciniamo a Lui, che è Padre anche nostro. Siamo chiamati a camminare con loro, e a rifare, sempre con loro, quei passi che ci hanno permesso di crescere e di comprendere. Se non camminiamo con loro, il rischio è di gestire la loro vita e guardarla con occhi mondani, superficiali, dimenticandoci che sono molto di più di quello che possiamo vedere e che loro ci vogliono far vedere. Se ci penso, io Cristo l’ho incontrato attraverso quelle persone che hanno saputo guardare con verità al mio cuore nonostante le mie resistenze.
A volte, noi padri ci dimentichiamo che il nostro unico compito è quello di fare in modo che i ragazzi possano conoscere il loro vero Padre.
Durante quell’assemblea ho capito per l’ennesima volta che il cammino verso Dio è così misterioso e personale che si può contemplare solo nel silenzio. Capisco che nella vita di tutti c’è un punto che solo Dio conosce e che molto spesso corriamo il pericolo di contaminare per colpa di giudizi affrettati e ingiusti (“Questo ragazzo non capisce, questo non ci tiene, quest’altro viene solo per dare fastidio…”). Un aspetto della paternità che sto imparando stando con i giovani è il valore dell’attesa. Più passa il tempo e più mi accorgo che una delle cose che mi chiedono e che chiedono a tutti gli adulti è quella di essere aspettati, di avere pazienza. Lo chiedono senza chiedere, senza parlare, senza essere espliciti.
L’attesa è qualcosa che in questo mondo moderno ci siamo dimenticati: vogliamo tutto e subito. Al contrario, ci sono aspetti dell’uomo che per crescere hanno bisogno di molto tempo e che noi non possiamo controllare: l’affetto, l’appartenenza, la fiducia, la fede, ecc. Per noi cristiani, l’attesa è quello spazio di tempo che Dio utilizza per raggiungere il nostro cuore e rivelarci il suo volto, e di conseguenza il nostro. Con questa coscienza imparo sempre più a voler bene ai ragazzi anche nei momenti di maggior lontananza o di ribellione, amando il loro cammino, sapendo che c’è un Padre più grande di me che si prende cura di loro.