Proponiamo una meditazione di don Andrea D’Auria sullo studio, strada per la conoscenza di Cristo, e sull’insegnamento, scuola di umilità.

Ricordo i miei primi anni da seminarista – a quei tempi la Casa di formazione della Fraternità san Carlo si trovava in via Liberiana, vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore – quando don Massimo Camisasca ci diceva che lo studio è conoscenza di Cristo. Questa frase aveva acceso e animato in me il desiderio dello studio durante tutto il tempo della formazione seminariale e anche dopo. Pensavo che qualsiasi cosa mi trovassi a studiare era una via per conoscere di più il Signore Gesù, in cui sono riposti tutti i tesori della sapienza e della scienza (cfr. Col 2, 3).
Pensavo anche che tutto quello che imparavo mi sarebbe servito per annunciare il Signore in modo più persuasivo ed efficace. Anche lo studio delle lingue straniere sarebbe stato un modo attraverso cui raggiungere tanti uomini e donne.
Durante gli anni di seminario ho avuto la fortuna di poter dedicare tanto tempo allo studio. Mi fu chiesto, dopo gli studi di Teologia, di approfondire il diritto canonico, che di per sé è una disciplina, apparentemente, piuttosto arida. Ma mi sovvenne, quando don Massimo mi fece questa richiesta, quanto mi aveva detto il mio primo professore di Diritto canonico, all’università Cattolica di Milano, don Eugenio Corecco – che diventò poi vescovo di Lugano. Il prof. Corecco affermò ripetutamente, durante quell’anno, che il Diritto canonico è una disciplina teologica, è un modo per conoscere e per approfondire il mistero di Cristo e della Sua Chiesa. È con questo ricordo, con questo convincimento che portai a termine gli studi.
Il mio primo insegnamento fu nel 1997 presso un piccolo istituto teologico – che in quegli anni muoveva i suoi primi passi – per il Matrimonio e la Famiglia, che si trovava vicino a Vienna, fondato dal Cardinal Schönborn. Attualmente insegno in due università pontificie a Roma.
Quando insegno mi accompagna sempre la memoria dei grandi maestri che ho avuto, soprattutto di don Giussani e poi Corecco, don Massimo e il cardinal De Paolis. Mi guida soprattutto il desiderio e l’entusiasmo di mostrare la ragionevolezza di quanto insegna la Chiesa. Affrontare il diritto in modo ragionevole vuol dire per me accompagnare gli studenti nella scoperta di quali siano i motivi profondi per cui la Chiesa nei secoli si è organizzata in un certo modo, ha fatto certe scelte, ha insegnato certi principi. Non si tratta affatto di confutare o di mettere in dubbio, quanto piuttosto di entrare nelle ragioni vere e profonde del perché l’insegnamento della Chiesa si presenta in un certo modo. Una volta il mio maestro, il prof. De Paolis, che poi diventò cardinale, mi disse: “Quando vuoi criticare un insegnamento della Chiesa, devi prima capire perché per duemila anni la Chiesa ha insegnato una certa cosa”.
Mi appassiona, quando insegno, poter dimostrare agli studenti e poi rivivere con loro il fatto che il diritto canonico è un modo per conoscere ed amare di più il mistero di Cristo e della Sua Chiesa. Certo, sub ratione iustitiae, come direbbe san Tommaso. Il diritto canonico non può occuparsi direttamente dei dogmi cristologici. Ma se è vero, come dicevo prima, che in Cristo sono riposti tutti i tesori della sapienza e della scienza e che Egli è il centro del cosmo e della storia, anche il diritto canonico può diventare un modo per svelare la Sua ineffabile profondità.
Un’altra cosa che mi appassiona nell’insegnamento è suscitare negli studenti domande ed interrogativi. Ad un primo approccio il diritto canonico sembra ovvio, scontato, arido ed è facile essere tentati di operare una lettura superficiale. Ma approfondendo il perché la Chiesa ha offerto certi modelli esplicativi nello strutturarsi e nell’organizzarsi nel corso dei secoli, questo accende gli interrogativi e le curiosità degli studenti. Per me, è l’esempio lampante della verità di quanto insegnava don Giussani: offrire una risposta non deprime mai la domanda, ma l’acuisce e la esalta.
La docenza mi ha insegnato che, come mi diceva sempre don Massimo, l’educazione è la scienza dei tempi. Quando si insegna bisogna sempre decidere che cosa dire prima e che cosa dire dopo; quali passi potrà fare lo studente che ho di fronte, cosa potrà capire e cosa invece è meglio rimandare nella spiegazione, in quanto, al momento, lo sentirebbe come un ultrasuono.
Ritengo inoltre che l’insegnamento e lo studio siano anche una grande scuola di umiltà, perché qualsiasi tema ci troviamo ad approcciare, qualsiasi argomento dobbiamo approfondire, capiamo che non siamo i primi e dobbiamo quindi appoggiarci sempre ad una tradizione, a qualcuno che è venuto prima di noi. Come diceva Bernardo di Chartres: «siamo nani sulle spalle di giganti».
Mi approccio a spiegare una nuova lezione o a scrivere un articolo? Devo sempre fare memoria e partire dalla consapevolezza che ci sono 2000 anni di storia prima di me; che quel tema è già stato studiato da persone come Graziano, san Tommaso, sant’Alfonso Maria dei Liguori ecc. E quindi non posso non approcciarmi con timore e tremore a quanto sto per studiare o per spiegare agli studenti. Penso che in nulla si capisca il concetto di traditio come nello studio della disciplina canonistica. Certo, anch’io forse potrò dire o insegnare qualcosa di nuovo; potrò contribuire al progresso e all’incremento della conoscenza; ma solamente se avrò l’umiltà di salire sulle spalle di giganti che mi hanno preceduto; se saprò muovermi, per innovare, nel solco della tradizione: «nihil innovetur, nisi quod traditum est».
Per me in questi anni insegnare è stata una scuola di umiltà, anche perché ho capito e continuo a capire sempre di più che la verità ci sovrasta talmente, è talmente più grande di noi che siamo chiamati a renderci continuamente suoi discepoli. Agli studenti in università dico, a volte, con tono un po’ scherzoso, che siamo tutti scolaretti di Dio. Erunt omnes discipuli Dei (Gv 6,45). Di fronte alla verità, di fronte al Mistero siamo un po’ tutti uguali, dal più grande luminare all’ultimo studente che si è immatricolato stamattina. Per insegnare devo essere disposto io stesso ad imparare, a farmi discepolo di quello che sto dicendo e di ciò che cerco, per come ne sono capace, di annunciare agli altri.

 

(Nella foto, una via della città di Pátzcuaro, Messico).

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