“Perché ti sei fatto prete?”. È una delle domande più frequenti che mi sono sentito rivolgere dai ragazzi del carcere minorile. Per dirla alla loro maniera, “Ma chi te l’ha fatto fa’?”. È certamente una delle risposte più difficili da dare, soprattutto a chi, come loro, capisce subito di che pasta è fatta la persona che ha davanti. Risposte preconfezionate, non ne vogliono. Non perdono tempo dietro ai discorsi. Questa loro genuinità li rende belli e impegnativi. “Che vita è quella del prete!? Non avrai mai una donna al tuo fianco e una famiglia con figli tuoi!”. Tante volte mi sono dovuto confrontare con questa richiesta, così esigente. Ho sempre detto loro, però, che all’inizio c’è l’incontro con qualcuno nei cui occhi vedi stampata la gioia. E con il passare del tempo, cominci ad intuire che Uno più grande ti vuole bene e ti sta tracciando la via. Poi accade che la chiamata alla gioia si rinnovi di un’intensità nuova e inaspettata attraverso altri incontri e altri volti. Dopo, non sei più quello di prima. Le giornate iniziano ad accendersi di un fuoco che fai fatica a contenere. Vieni investito da un entusiasmo che ti porta a impegnarti con la realtà, a sporcarti le mani, a costruire. Per me è stato così.
Ho avuto l’immensa fortuna di incontrare una grande persona: padre Gaetano Greco, un frate dei Terziari Cappuccini dell’Addolorata, per 36 anni cappellano a Casal del Marmo. Originario di San Giovanni Rotondo, il paese di padre Pio, una volta ordinato sacerdote lavorò in Sardegna, in un istituto di rieducazione. Agli inizi degli anni ’80, fu chiamato a Roma come cappellano al carcere minorile. E da lì non si mosse più fino a dare vita, 25 anni fa, ad una comunità educativa che accoglie ragazzi in misura alternativa alla detenzione e minori non accompagnati: Borgo Amigò, dal nome del fondatore del suo istituto.
La prima volta che incontrai padre Gaetano, dieci anni fa, ci avvertì che la missione con i ragazzi del carcere non è cosa per i deboli di cuore, per chi è tiepido e impaurito. Ci consegnò una parola che divenne per me una vera e propria promessa per la vita. “Se siete alla ricerca di un posto dove riposare – disse – avete sbagliato tutto. Se invece desiderate un luogo dove imparare che cosa sia la paternità, non ce n’è di migliori”.
Per otto anni siamo stati fianco a fianco all’interno del carcere, un lungo tirocinio che ha fatto crescere un’amicizia feconda. Ho cercato di rubare, con gli occhi e con il cuore, il suo segreto, il suo modo di stare con i ragazzi, lo sguardo che posava su ognuno di loro desiderando, con pazienza, amore e fermezza, premere la molla giusta per farli ripartire. Da lui ho imparato che tutto si gioca in una relazione personale e fedele. Se non è possibile cambiare il mondo intero, possiamo però aiutare a trasformare il cuore di un uomo, soprattutto se ancora giovane.
“Che cosa fa un prete in mezzo a voi?”. Quella domenica, la liturgia parlava del re che aveva imbandito un banchetto per la festa di nozze. Gli ospiti avevano declinato l’invito e il re si era rivolto agli zoppi, ai ciechi, agli storpi. “Perché Dio chiama i più sfortunati? Perché sa che incontrarsi con lui è la vera festa. Dio vuole che tutti possano sperimentare questa gioia almeno una volta nella vita”. Così continuò padre Gaetano: “Questo fa il sacerdote: vi fa sentire vicino l’amore di Dio, così che anche uno solo di voi, almeno una volta nella vita, possa sperimentare la gioia di sentirsi amato e di incontrarsi con lui”.
“Ancora oggi, a 70 anni e più, capita che i ragazzi chiedano il motivo per cui sono diventato sacerdote. E io rispondo così: se non avessi fatto il prete, non ci saremmo incontrati”. In queste parole è racchiuso l’uomo che apprezzo e ammiro, a cui mi appoggio per trovare forza e incoraggiamento.
(Nicolò Ceccolini è cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma. Nella foto, durante un colloquio con un detenuto.)