L’inizio della mia missione tra gli universitari di Milano è stato segnato da una serata musicale che avevo concepito anni fa mentre riflettevo sul tema affettivo. Al centro, Don Giovanni di Mozart. Mi era sembrato allora che il cuore di questo capolavoro non fosse tanto la condotta sessuale riprovevole del protagonista. Anzi, essa si poteva annotare semplicemente come sintomo, certo grave, di una posizione rispetto alla vita intera, al mistero dell’esistenza, a Dio. Come mai, infatti, un’opera che parla d’amore incomincia con un omicidio? Scoprii che l’opera mozartiana nasceva dal confluire di due filoni letterari: da una parte, la figura del seduttore codificata da Tirso de Molina nel Seicento, dall’altra, quella più o meno coeva dell’«ateista fulminato», un empio e sacrilego pensatore che sbeffeggia la morte.
Quando poi mi imbattei nelle pagine in cui don Giussani descrive il nichilismo nel quale siamo immersi, vi trovai involontarie e perfette recensioni dell’opera. «Il nichilismo è la conseguenza inevitabile innanzitutto di una presunzione antropocentrica, per la quale l’uomo sarebbe capace di salvarsi da se stesso». Don Giovanni seduce donna Anna ma ne uccide il padre. Il possesso che pretende è totalizzante: deve eliminare le radici in cui l’amata è cresciuta. E così la vita di don Giovanni è una continua fuga senza meta, una corsa interrotta da una serie infinita di conquiste amorose, tutte dettate dal caso. «Se l’uomo, riducendosi ultimamente a niente, a una menzogna, è una finta, si sente una finta, un’apparenza di essere; se il suo io nasce totalmente come parte del grande divenire, come semplice esito dei suoi antecedenti fisici e biologici, egli non ha alcuna consistenza originale: l’unico criterio che può avere allora è quello di adattarsi, così come viene, all’urto meccanico delle circostanze, e più in esse egli ha potere, più la consistenza sua, che è apparenza, aumenta, sembra aumentare, e perciò aumenta l’illusione, anzi, la menzogna». Nell’opera di Mozart, il protagonista è in perenne movimento, apparentemente sicuro di sé ma sempre più roso dalla paura e dal sospetto. Un’inquietudine dettata dall’insoddisfazione: la sua patologica bulimia sessuale non verrà saziata perché si tratta di un desiderio ridotto ad una serie illimitata di pulsioni.
L’aria «del catalogo», in cui il servo Leporello mette sull’avviso donna Elvira dall’illusione di essere l’amata per eccellenza, impressiona non tanto per i numeri esorbitanti delle conquiste quanto per l’assenza di nomi: tutto è quantificato e ridotto a categorie fisiche. Addirittura, canta il servo, «delle vecchie fa conquista / Pel piacer di porle in lista; / Sua passion predominante / È la giovin principiante. / Non si picca se sia ricca, / Se sia brutta, se sia bella; / Purché porti la gonnella, / Voi sapete quel che fa».
«Sia panteismo che nichilismo distruggono quello che è più inesorabilmente grande nell’uomo; distruggono l’uomo come persona». L’opera si svolge nell’oscurità: don Giovanni splende nel buio ma a questo buio appartiene. I volti sono sempre in penombra o addirittura mascherati. Come si può parlare di amore se il volto dell’amata non è mai adorabile? Don Giovanni non è disposto a cominciare il viaggio che avvia la venerazione di un volto amoroso, cerca solo se stesso nelle donne che conquista. Addirittura, al suo scopo interessano solo alcune parti del corpo femminile.
L’irrisione della morte, altra faccia della medaglia di una vita vissuta come gioco, presenta presto il conto e la corsa folle di don Giovanni finisce per schiantarsi quando il Signore del tempo torna da lui, per aprirgli gli occhi e invitarlo a cena nel suo Regno. Il drammatico finale dell’opera – che nulla ha a che vedere con la conversione del Miguel Mañara di Milosz, con cui don Giussani ci ha educato all’amore – comincia mentre don Giovanni banchetta sontuosamente ad una tavola apparecchiata solo per lui. È sempre una triste fruizione solitaria che mai è godimento: Leporello ci ha avvisato fin dall’inizio che il suo padrone «nulla sa gradir». Il Destino bussa alla sua porta ma la superbia del protagonista gli impedisce di redimere una vita sprecata.
Il finale evoca in me l’episodio che don Giussani cita all’inizio de Il senso religioso, la confessione di quel giovane che gli ricorda il Capaneo dantesco. La vita si gioca realmente nell’alternativa tra anarchia e atteggiamento religioso: «L’uomo non inventa nulla: riceve. Se misconosce questo ricevere […], l’uomo si trova a pretendere, e gonfiandosi, gonfiandosi, come la rana di esopica memoria, a un certo punto si trova a scoppiare […]. Il nichilismo è lo scoppiare dell’uomo che pretende di costruire tutto secondo se stesso». Il libertino, accusa tremante il servo mentre la minaccia si fa sempre più incombente, «Di sasso ha il core, / o cor non ha». Come avrebbe potuto amare, quindi?
Il tempo di don Giovanni è finito. La sua folle rincorsa termina nel nulla, come cantano tutti sul palco prima della chiusura del sipario: «De’ perfidi la morte / alla vita è sempre ugual». A me, questo finale ricorda il poeta Camillo Sbarbaro: «Perduto ha la voce / la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. / Nel deserto / io guardo con asciutti occhi me stesso». È curioso come basti una serata con i ragazzi in compagnia di Mozart per svelare l’inganno e risvegliare il desiderio più vero!
Marco Ruffini è viceparroco di San Carlo alla Ca’ Granda e cappellano del Politecnico Bovisa, a Milano. Nell’immagine, una scena del Don Giovanni di Mozart (1787) in una illustrazione del 1914.