La realtà della missione è al centro di tutto ciò che ho vissuto e vivo con voi e con la mia Chiesa. È anche al centro delle mie riflessioni, di ciò che ho meditato e soprattutto di ciò che ho ricevuto.
Mi chiedevo stamane: “Che cosa posso dire della mia esperienza missionaria?”. Dirò, come ho sempre fatto e come sempre di più faccio quanto più passano gli anni, semplicemente ciò che sto vivendo. O forse ciò che desidererei vivere e che, quindi, in parte sto vivendo. Perché nella tensione all’infinito c’è sempre un’esperienza presente.
La missione è l’opera di Dio
La prima parola che voglio dire sgorga dall’impressione che ho avuto entrando in questa sala la prima sera. Ho visto il cartellone con l’immagine di Bogotá, città in cui siamo in missione, e mi sono detto: “Da dove è nato tutto questo? Da dove sono nate tutte le nostre missioni?”. Voi forse non potete capirlo, ma quando uno è all’origine di una realtà così significativa come la Fraternità san Carlo e poi se ne allontana, o ne è allontanato, ogni volta che la rivede accade come un sussulto. Ed è un sussulto di non poco conto. È un aspetto di quel sacrificio positivo che Dio chiede a ogni maturità. Perciò, la prima immagine che vorrei suscitare in voi è lo stupore per l’opera di Dio.
Entrando qui sono rimasto stupito per l’opera di Dio, che ho sentito evocare dentro la gran parte degli interventi che ho ascoltato. Fra l’altro, conoscendo i vari sacerdoti che parlavano, era evidente che essi non dicevano parole proprie. O meglio: erano parole proprie, ma suscitate da Qualcuno che le abitava.
L’opera di Dio all’inizio – quante volte lo abbiamo ribadito tra noi e l’ho ripetuto a me stesso! – è una cosa piccolissima. È come una polla, le due o tre gocce d’acqua da cui nascerà un fiume. L’immagine del fiume è proprio quella che più mi è stata chiara in questi giorni: un fiume di grazia di cui noi non conosciamo i confini. Ascoltando i vostri racconti sulle persone incontrate, sui malati, sui giovani, sulle scuole… tutto è veramente un fiume di grazia! Un fiume alla cui origine è Dio e il cui percorso è scelto da Dio ed è determinato da Lui soltanto.
La grande opera della vita non è decidere che cosa fare, ma aderire a ciò che ci è chiesto. Ciò non vuol dire rinunciare alla nostra libertà: ogni decisione umana porta in sé la libertà della persona, comprende la nostra creatività, le nostre fatiche, i nostri rifiuti, la nostra conversione e, infine, il nostro riconoscere: “Sì, Signore, tu sei tutto”. La missione non è una “parte”, fosse anche la più importante, del cristianesimo. Essa è il cristianesimo.
Ricordo una frase di padre De Lubac che diceva: “Tanto più si parla di missione, tanto meno la si vive”. Aveva ragione, nel senso che spesso le parole, per il modo in cui le usiamo, oscurano la realtà più che rivelarla.
Tornare alle origini non è per noi un progetto archeologico, ma significa riconoscere che tutto viene da Dio. In questo senso le Cappellette in via Liberiana, a Roma – prima sede della Fraternità san Carlo –, sono state la nostra Betlemme, la nostra capanna, in cui realmente non c’era molto, ma in fondo c’era già tutto. Come nel sì di Maria.
Maturando nella vita, attraverso le esperienze che vivo, l’avvenimento che guardo con più attenzione, con più gioia, ma anche con ammirazione e sgomento, è il sì di Maria. Esteriormente non c’era nessuno; erano presenti però milioni di angeli e di santi, i santi dell’Antico Testamento, in attesa di quel sì. San Bernardo lo descrive con drammaticità teatrale e plastica (cfr. Bernardo di Chiaravalle, Omelie sulla Madonna, 4, 8-9.).
Pensiamo anche alla furtività con cui è avvenuta la vita di Gesù, il suo bisogno di ritirarsi per potersi esporre, la solitudine della croce, la misteriosità della resurrezione. L’inizio e gli inizi sono sempre circondati da questa semplicità che poi, a poco a poco, genera storie sempre nuove, nella misura del nostro sì, che rivive il sì di Maria e di cui Dio è l’attore. Dio che ha mandato suo figlio.
La missione non è una “parte”, fosse anche la più importante, del cristianesimo. Essa è il cristianesimo.
Riassumendo: la missione è aderire alla volontà di Dio, entrare nella vita del Figlio. Non ci sono tante missioni, c’è una sola missione: quella del Figlio che cerca l’uomo. Dobbiamo entrare nella missione del Figlio, nella sua vita, nella realtà personale di Gesù Cristo che cerca l’uomo ed è cercato dall’uomo.
Cristo cerca l’uomo e l’uomo cerca Cristo. Lo cerca seguendo tante strade. Non c’è nessuno che non cerchi Cristo. Nel fondo di ogni uomo abita Dio, ogni uomo è immagine di Dio. E noi dobbiamo aiutare gli uomini a riconoscere questo e custodirlo; a riconoscere Cristo che abita nel fondo della loro vita, a custodire questa immagine e somiglianza e a chiamarla per nome. Il mistero del battesimo è tutto qui: chiamare per nome. Non c’è altro. La missione è tutta opera di Dio che avviene e che è percepibile soltanto dai pastori e dagli angeli. Nella misura in cui noi cioè diventiamo pastori, diventiamo poveri di spirito. Solo allora vediamo Dio all’opera. Nella misura in cui siamo pieni dei nostri problemi e delle nostre recriminazioni, non vediamo più Dio, ma soltanto noi stessi.
Dio sceglie per mandare
Vorrei dire ora una seconda parola, sempre relativa al tema della missione e relativa alla mia vita. Dire che la missione è tutta opera di Dio non mette assolutamente da parte l’evento che avviene tra Dio e l’uomo. Dio sceglie, per mandare.
Dopo il mistero della nascita o dentro il mistero della nascita, ecco il mistero dell’elezione: “Potevo non esserci e ci sono”. Perché ci sono? Per essere scelto. In fondo tutte le riflessioni che l’uomo ha formulato in migliaia di anni di storia, tutta l’arte, la poesia, la letteratura, la musica, tutto è solo legato a due eventi: la nascita e la morte. Nascita e morte sono due eventi che non si possono trascendere, che non possono essere diluiti. È vero che oggi le persone possono in taluni casi decidere se essere biondi o mori, con gli occhi azzurri o marroni… Ma nessuno di noi ha potuto decidere se essere o non essere. Purtroppo, e tragicamente, oggi si va anche verso la possibilità di decidere della propria morte o, peggio ancora, di lasciare in mano ad altri la decisione al riguardo della propria sopravvivenza. Nessuno, ad ogni modo, può però eludere il mistero della morte.
Dio sceglie. Dopo il mistero dell’essere e il mistero della nascita (potete rileggere con frutto la conversazione fra don Giussani e Testori su questo tema), il mistero dell’elezione. Quando sono stato in India, in alcune zone terribili di Calcutta e Mumbai, mi sono chiesto: perché Dio non mi ha fatto nascere in India? Perché mi ha misteriosamente risparmiato di essere qui in questi crocicchi in cui le persone si ammassano, si addensano, muoiono l’una sull’altra? Perché mi ha fatto nascere in Italia? Perché ha fatto in modo che i miei genitori andassero a Milano e io incontrassi don Giussani? Ecco il mistero dell’elezione.
Questo mistero è vero per tutti, perché così come è vero che ciascuno è nato, è anche vero che ciascuno è scelto da Dio. E questo è un mistero incomprensibile sulla terra. Quindi non dobbiamo perdere tempo a cercare di rispondere a queste domande: “Perché qui e non là? Perché me e non te?”. Dobbiamo guardare la risposta a questa domanda nella realtà della predilezione di Dio e di Cristo per me. Non ha senso chiedersi perché l’amore ama. Occorre invece aprirsi ogni giorno a questo amore, a questa predilezione che è sempre anche responsabilità. Infatti, così come non c’è altra iniziativa se non quella di Dio, così non c’è altro amore se non quello del Padre per il Figlio. Non c’è un altro amore. C’è una partecipazione a quell’amore, non un altro amore. La nostra missione nasce dalla scoperta dell’elezione, la scoperta che Lui mi ha scelto perché mi ha amato. Ha amato me e si è donato per me (cf. Gal 2,20): questa improvvisa rivelazione che san Paolo ha ricevuto è stata la scintilla e il fuoco che ha alimentato tutta la sua vita. Se non entriamo in questo fuoco, non possiamo capire cos’è la missione. “No, non è questione di giustizia tra me e voi, ma soltanto di carità”. In queste parole di Claudel ne L’annuncio a Maria c’è, a mio parere, tutta una teologia della missione, una teologia della Chiesa, una teologia della rivelazione, che forse dovremmo riscoprire e continuamente approfondire.
Il mio peccato
La terza parola che vorrei dirvi è questa: dopo la sorpresa dell’opera di Dio che ha creato dal nulla l’universo, quindi anche noi e anche questa Fraternità; dopo la sorpresa dell’elezione che dovrebbe farci tutti un po’ tremare; la terza sorpresa, la più sconvolgente, è che Dio non solo ha scelto me, ma ha scelto me peccatore. Questa consapevolezza cresce dentro di noi solo col tempo. Andando avanti negli anni la percezione dei miei peccati aumenta enormemente e potrebbe paralizzarmi, se non rimandasse alla tenerezza di Cristo.
Recentemente madre Cristiana Piccardo, che è stata badessa a Vitorchiano per tanti anni ed ha accompagnato la riforma della vita monastica dopo il Concilio, e che da più di vent’anni vive in Venezuela, ha potuto leggere il ritratto di lei che io ho scritto per Fraternità e Missione. Mi ha scritto una lettera, nella quale dice: “Eccellenza Reverendissima, mi è capitata per caso fra le mani la rivista di alcuni mesi fa. Qui le cose arrivano con tre o quattro mesi di ritardo. Ho letto la breve nota in cui lei parla anche di me e ho provato un’immensa vergogna perché una cosa sono le apparenze e un’altra la sostanza. Io sono solo oppressa dai miei molti peccati e ciò che Dio ha fatto usandomi è solo roba Sua, perché io sono pura incapacità. Ma questo non mi impedisce di dirLe il mio grazie per la passione con cui Lei accompagna da sempre la mia povera vita”. La tenerezza di Cristo non è qualcosa di sentimentale. La tenerezza di Cristo è la cosa più incomprensibile della vita: è il fatto che Lui ama il mio niente. La missione in fondo è questo: è essere eco della tenerezza di Cristo, amare il niente che c’è nell’altro. Soprattutto, innanzitutto e prima di tutto, amare il niente dei miei fratelli, di quelli che sono nella mia casa. Quella tenerezza che dovremmo avere tra noi e che non riusciamo ad esprimere, perché molte volte non abbiamo pietà gli uni degli altri.
Parlare di Cristo
Come quarto punto, vorrei sottolineare che la missione è entrare nella vita dell’uomo per fargli conoscere Dio che lo abita e il Figlio che lo ama. La missione è trasmissione di conoscenza. Vorrei insistere su questo. Innanzitutto la missione è conoscenza di Cristo perché egli è il missionario. Ricordate quel testo bellissimo di don Giussani in cui dice che se avessero chiesto a Cristo “Chi sei?”, egli non avrebbe potuto rispondere altro che: “Io sono il missionario del Padre”? (cfr. L. Giussani, Vita e spirito nel sacerdote cattolico, 19 ottobre 1993). Mi ha molto colpito l’incontro che abbiamo avuto ieri con due nostri sacerdoti cappellani di ospedale a Praga e a Bologna, sul tema della vicinanza ai malati e ai morenti. Noi siamo mandati per far conoscere Cristo, non semplicemente per fare compagnia agli uomini, perché la compagnia vera agli uomini è Cristo. Certo, non chi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli (Mt 7,21). Non si tratta di sbandierare l’appartenenza a un partito, o ostentare parole e certezze. Si tratta di custodire dentro di sé Cristo, così che egli possa emergere non appena uno spiraglio si apra. Dobbiamo essere portatori di Lui, non di noi stessi. Attraverso di noi, è Lui che deve regnare. Proviamo, quando lo riteniamo opportuno, a cominciare a pregare con coloro cui insieme ai quali camminiamo.
La missione è parlare a Cristo ed è parlare di Cristo. Oggi si sottolinea giustamente l’importanza della testimonianza, ma non si sottolinea a sufficienza l’importanza della Parola. Forse troppe volte, e questo è innegabile, la Parola “Cristo” viene giustapposta, se ne abusa. Questo però non significa che dobbiamo cadere nel silenzio. La Parola “Cristo”, cioè l’annuncio di Cristo, è il tutto della missione. Noi non siamo chiamati a portare un’etica mondana né una saggezza umana. Noi siamo chiamati a portare un Altro, a portare Lui, a rivelare Lui.
Quando tutte le sere prima di addormentarci pronunciamo nel Cantico di Simeone: lumen ad revelationem gentium, “luce per rivelarti alle genti” (Lc 2,32), parliamo di Cristo come di colui che toglie il velo dalla realtà dei popoli e ne svela il compito nel mondo. Proprio questo significa parlare di Cristo: togliere il velo dalla vita e svelarne il senso. Si comprende così l’importanza di accostare la persona di Cristo anche attraverso lo studio, durante gli anni di seminario, ma anche da sacerdoti.
Per parlare di Cristo dobbiamo mostrarci padri, madri, amici. Essere padri e madri per le persone che hanno bisogno è una strada fondamentale della rivelazione di Cristo. Chi è chiamato al sacerdozio, o alla vita religiosa come le nostre Missionarie, è chiamato alla manifestazione della paternità e della maternità, ad accompagnare le persone. Senza l’accompagnamento è spesso vano il parlare.
Trovo attualissime oggi queste parole che don Giussani ci ripeteva spesso: “La compagnia più grande è la comunità stessa”. La paternità e la maternità devono guardarsi dall’essere un richiamo a sé, un possesso dell’altro. È anche vero però che nelle realtà, spesso fragili, tenui e scolorite delle nostre comunità, molte persone hanno bisogno, oggi più che tempo fa, di una mano personale, di qualcuno che sia l’eco della paternità di Dio e della maternità della Chiesa.
Risposta ad alcune domande
Il metodo della missione
Uno di voi, missionario negli Stati Uniti, ha chiesto: “Che cosa vuol dire tradurre CL per il popolo cui siamo mandati? Che cosa farebbe Giussani se incominciasse oggi, qui dove sono io, da zero?”
Come vivere il movimento in America? Siete voi che dovete dirlo a me, non io a voi. Voi siete lì. «La verità nasce dalla terra»: questa frase di Mounier, che ci ha accompagnati per tanti anni, penso debba essere un po’ ricompresa. Il movimento, come il cristianesimo, non cresce per una forma che dall’alto viene applicata alle persone, ma è un’esperienza che uno vive e trasmette accompagnandosi alla loro vita. Ed è un’esperienza che si mantiene viva nella misura in cui essa rinasce in noi, dentro il luogo in cui siamo. Se dunque all’inizio questa esperienza non può che essere comunicata attraverso la traduzione di parole nostre, nel tempo deve essere detta attraverso le parole che nascono da loro. Finché non diventa una cosa “loro” insieme a noi, non sarà mai un esperienza che rimane. “Che cosa farebbe Giussani?”. Io rispondo: “Che cosa fai tu, lì, adesso, avendo dentro di te ciò che l’esperienza di Giussani ti ha portato?”. Altrimenti la domanda diventa irreale. Nessuno può dire che cosa farebbe Giussani. Eppure nello stesso tempo possiamo affermarlo, nella misura in cui è presente in noi quello che lui ha portato e lo facciamo rivivere con la gente che incontriamo. Non è semplice, ma è veramente la strada verso cui dobbiamo andare.
Sappiamo che ci sono due tentazioni estreme. La prima ci porta a dire: “Devo diventare come loro”. L’altra, all’opposto, vuole convincerci che loro devono diventare come noi. La Chiesa ha percorso tutte e due queste strade, ma ha percorso anche una terza strada, più complessa: quella di generare il Verbo dall’interno di un popolo, di un contesto storico, di una lingua. Tutto questo tentativo è determinato dalla profondità dell’esperienza che noi viviamo. Per questo la Fraternità ha un compito di “teologia della missione” – chiamiamola così – importantissimo: siete in tutto il mondo. In rapporto con il Centro della Fraternità, rischiate questa nascita missionaria dentro i popoli, le culture e le storie, senza perdere voi stessi! L’unità è la strada fondamentale. Perché la nascita del Verbo dentro i popoli è una cosa così ardua, che ha bisogno di due cose: i geni e l’unità. I geni, che sanno esprimere quello che migliaia e migliaia di persone messe assieme non saprebbero esprimere, danno una direzione. Poi, l’unità: l’unità del popolo, della comunità, l’unità del sensus fidei.
Il vero senso delle ferite
Alcuni di voi hanno parlato del grande tema: ferite – fragilità – bisogno. Ho parlato di questo tema tante volte ed esso è molto importante per me. A volte vedo però che esso è trattato in modo equivoco. Certamente Cristo ha incontrato gli uomini e le donne nei loro bisogni. Il bisogno è stato il pertugio attraverso cui è entrato nelle loro vite. Così è anche per noi. I bisogni sono di diverso genere: ci sono quelli materiali, la fame, la sete, la casa… Ma tutti i bisogni materiali contengono al fondo un bisogno spirituale. La casa, ad esempio, ci parla dell’uscita dalla solitudine, che per me è oggi il bisogno più radicale, più diffuso, profondo e drammatico. Ci sono poi ferite ancor più profonde: l’abbandono, il tradimento, l’abuso. Oggi esse sono in grande crescita numerica, per il disfacimento sia della convivenza civile sia dei valori che l’hanno retta fino a questo momento. Tutte queste considerazioni sono molto importanti, ma non possiamo fermarci qui.
La più grande ferita nella vita dell’uomo è il bisogno di Dio. Certamente noi arriviamo al bisogno di Dio attraverso altri bisogni che abbiamo e che altri hanno: attraverso il bisogno che abbiamo arriviamo al bisogno che siamo. Ma la nostra vita non può mai trovare una risposta alle ferite, se non arriva fino a Dio. Questo non vuol dire che le mie ferite saranno tutte risanate. Forse alcune resteranno. Oggi purtroppo si sta facendo strada una “teologia delle ferite” ed una “teologia della tenerezza”, che trovo pericolosa se non è collocata in un quadro totale. È vero, lo ripeto: Dio ha creato la Fraternità per curarmi dalle mie ferite, non per baloccarmi nelle mie ferite. Per dirmi: “Svegliati e cammina: camminando ti curo”. In questo senso Egli ci guarisce. Non mi ha guarito dalle mie ferite perché queste non ci siano più, ma perché si manifesta e si è manifestato nella mia vita attraverso di esse. Questa è la guarigione. Noi oggi talvolta abbiamo una visione parziale delle ferite. Ad esempio: “Quel nostro fratello è ferito perché non ha più il lavoro o perché la moglie lo ha abbandonato”. Tutte cose serie e di grandissima importanza, ma non possiamo fermarci lì! Ciò di cui ha bisogno quella persona è una presenza che le dica che non è stata abbandonata, che c’è Qualcuno che non abbandona.
È così anche all’interno della Fraternità: è vero, ci sono delle ferite fra di noi, ma la più grande ferita è che noi dimentichiamo Dio. Solo se arriviamo lì possiamo curare anche il resto. Altrimenti saranno semplicemente rimedi moralistici che applichiamo, come dei cerotti provvisori. La ferita più grande è l’assenza della fede, l’assenza dello sguardo di Dio sulla vita. Lo sguardo di Dio si compone sempre (è uno sguardo solo!) di due momenti: ci rialza, perché esso è misericordia, ma nello stesso tempo ci corregge, perché esso è verità e giustizia.
Dice Gesù all’adultera: “Chi ti ha condannato?” “Nessuno” “Bene, neanche io ti condanno. Va’ e non peccare più” (cfr. Gv 8,10-11). Sento citare molte volte questa frase, ma la seconda parte spesso viene omessa. Giudizio e misericordia vanno invece sempre assieme, perché il giudizio di Dio è misericordia e la misericordia di Dio è giudizio. Che Dio, per correggere il suo popolo che era diventato idolatrico, abbia permesso la deportazione a Babilonia, è un fatto che costituisce giudizio e misericordia assieme: esso è l’inizio del ritorno del popolo a Dio! Il Signore non vuole il male, ma talvolta permette il male perché abbiamo a riscoprire il bene. Non possiamo mai separare giudizio e misericordia: sono due facce di una stessa realtà.
Lezione alle vacanze estive della Fraternità san Carlo. Campo Carlo Magno (Tn), 26 luglio 2019.