Ha scritto il grande Bernanos: «Dio non custodisce nessuno di noi come un uccello prezioso in gabbia. Lascia i suoi migliori amici in balia di tutto, li dà per niente, ai buoni, ai cattivi, a tutti, proprio come è stato consegnato Lui da Pilato: Tenete, prendete, ecco l’uomo! – Oh! Signor La Pêrouse, che cosa straordinaria, in mezzo a quel carnevale di soldati, di sacerdoti ebrei e di donne truccate, la prima comunione del genere umano!».
Il Signore a volte permette che anche noi subiamo l’esperienza dell’ingratitudine. Talvolta il nostro amore ci appare sprecato, dilapidato davanti alla dimenticanza e all’indifferenza altrui. Qualcuno a cui abbiamo dedicato tempo, a cui abbiamo donato parte della nostra vita, si dimentica di noi, ci respinge, ci allontana. O semplicemente diventiamo a lui indifferenti.
Attraverso la passione e la croce, attraverso i sacrifici e il disprezzo ricevuto dagli uomini, Gesù era certo dell’amore del Padre.
Alcuni affermano che questa esperienza è permessa dal Signore affinché noi non ci leghiamo agli affetti terreni. Si tratta, però, di una posizione disumana e utopica. Questi pii confessori dicono: «Ecco, hai amato le creature e non solo il creatore, dunque il tuo dolore è la giusta punizione per la tua mancanza di distacco». Ma che cosa sarebbe accaduto se Gesù avesse amato solo il Padre e non i suoi fratelli uomini? Dobbiamo dire che anche il suo dolore è dovuto a mancanza di distacco? No. Nell’esperienza dell’ingratitudine, il vero sacrificio sta nella scoperta di un amore più grande: Ho sete, dice Gesù sulla croce, al colmo del suo patire. Dio non si è fermato a lamentarsi, ci ha amato di più mentre ci allontanavamo, ci ha desiderati di più mentre volevamo perderci: Ho sete.
Perché Gesù ha potuto fare questo con la nostra ingratitudine? Perché ci ha amati così? Perché era grato a suo Padre, perché sapeva che cosa il Padre avrebbe fatto di lui. Attraverso la passione e la croce, attraverso i sacrifici e il disprezzo ricevuto dagli uomini, Gesù era certo dell’amore del Padre. Non è vero che un cuore grato non è ferito dall’ingratitudine: anzi, è più ferito, perché conosce il tesoro che vede dilapidare. Ma da questa ferita non sgorga rancore bensì un dolore che vuole diventare sacrificio, iniziativa, passione perché l’altro sia riconoscente, ossia felice. Riconoscente, ossia fedele. È dal cuore grato e ferito che sgorga ogni grazia. Nell’ingratitudine altrui verso di noi, riconosciamo la nostra ingratitudine verso Gesù. Nel nostro dolore riconosciamo il suo. Questa esperienza ci è data per fare nostro il suo desiderio, perché capiamo cosa desideriamo in realtà, perché possiamo dire insieme a lui: Ho sete.
La drammatica – perché amorosa – felicità di Gesù si compie nel fare di tutto se stesso un dono a noi. Ha voluto bruciare tutta l’ingratitudine, ogni nostra paura di perderci, donandoci tutto se stesso. Guardando a lui che ci ama così, siamo grati, siamo riconoscenti, siamo pronti ad essere anche noi terminali di questa grazia che vuole salvare il mondo.