L’esperienza di Charles, ex detenuto, che, dopo una vita borderline, si sente accolto dalle suore di Madre Teresa svela la natura della carità: non filantropia, ma condivisione.

La prima volta che ho incontrato Charles è stato alla casa delle Missionarie della carità. Ed era furioso con il mondo. Quarant’anni prima, quando di anni ne aveva solo 23, Charles era stato arrestato per i delitti commessi con la sua gang. Fu considerato il leader del gruppo anche se, forse, si era semplicemente sacrificato per non fare i nomi degli altri. Poco dopo essere uscito di prigione, Charles ebbe un terribile incidente stradale e fu abbandonato in ospedale senza assicurazione sanitaria. Nessuno della sua gang si era più ricordato di lui. Quando lo vidi per la prima volta, appena dopo avergli servito la colazione con le suore, questo sessantenne invecchiato male mi disse: «Non sanno chi sono io! Io non mi faccio comandare dalle donne, in particolare dalle suore!». Un grido nobile ma patetico, il suo. Gridava contro gli ordini delle suore, pur non potendo camminare né vestirsi senza il loro aiuto. A malapena riusciva a mangiare.
Il mese dopo, tornai con i ragazzi di Gs: Charles era sparito dal convento, nel folle tentativo di essere ancora un membro della sua gang. Poco tempo dopo lo incontrai di nuovo, dalle suore di Madre Teresa. «Perché sei tornato?». «Ho provato a vivere a Chicago, ma nessuno mi voleva, anzi, quelli della mia gang mi hanno preso in giro chiamandomi “storpio”. Sono tornato piangendo: queste donne sono le uniche che mi hanno amato». Da quel giorno, lo vedo a messa: riceve i sacramenti e parla della grandezza della misericordia di Dio.
Da quando ho iniziato a seguire i ragazzi di Gs, ogni mese invito un gruppetto di studenti della mia scuola a fare caritativa dalle suore di Madre Teresa, perché possano vedere qual è la nostra vera natura di uomini. Perché possano conoscere Charles. In effetti, il gesto della caritativa è sovversivo, quando è proposto in maniera semplice e radicale. Negli Stati Uniti, infatti, la parola “carità” tende ad essere intesa come un impegno per risolvere i problemi del mondo, come un tentativo di eliminare dei limiti alla felicità. Per questo, i giovani si coinvolgono in raccolte-fondi di ogni tipo, per le più svariate cause. C’è qualcosa di vero in questo spirito giovane e costruttivo. Ma c’è anche una miopia. Perché, quando il dolore non può essere trasformato in gioia, quando il limite dell’altro non può essere superato, allora tutto sembra perdere significato: sembra che amare non sia più possibile.
Nonostante la persona di Madre Teresa sia stata tanto celebrata dagli americani, le Missionarie della carità sono un pugno allo stomaco per chi confonde la carità con la filantropia. Il primo desiderio di queste suore non è rimuovere la povertà, anche perché in molti casi è proprio impossibile, ma condividere in tutto il bisogno dei poveri. Le figlie di Madre Teresa trovano la felicità nel diventare esse stesse the poorest of the poor, più povere dei poveri, per “saziare la sete del loro Amato”. Ogni mese mi ritrovo di fronte a questo grido discreto e imperterrito di amore. Mi ritrovo ad imparare, insieme ai miei ragazzi, quello che ha imparato Charles: è bello dipendere da Qualcuno che desidera amare tutto di noi.

(Nell’immagine, un momento della canonizzazione di Madre Teresa in piazza san Pietro, il 4 settembre 2016 – Servizio fotografico dell’Osservatore Romano).

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