Quattro anni fa ho iniziato a frequentare gli ospiti della casa di cura Villa delle Magnolie, situata nel nostro quartiere romano della Magliana. Il primo approccio è stato difficile. Ho sempre avuto una propensione e una preferenza verso questo tipo di situazioni, finché sono giunta a lavorare in hospice a Milano con i pazienti oncologici. In qualche modo, l’esperienza in ospedale ha coperto il disagio di stare di fronte a situazioni molto dolorose: potevo nascondermi dietro un “fare qualcosa” che potesse aiutare le persone che mi erano affidate (misurare la pressione, controllare l’idratazione della cute…). Invece, il mio primo anno a Villa delle Magnolie, nella semplice compagnia ai malati, ha fatto emergere in me il grande disagio dell’essere inerme di fronte al dramma di una persona malata e magari sola.
Per due anni, non sono tornata a Villa delle Magnolie, ed è stato un distacco utile: innanzitutto per radicarmi nella vita delle Missionarie; in secondo luogo per individuare le ragioni profonde della mia affezione ai malati.
Quest’anno mi è stato chiesto di tornare nella casa di cura, insieme ad Antonella. Ho ricominciato questa caritativa con due domande a Dio: la prima è stata quella di aiutarmi a stare, semplicemente, di fronte al dolore della gente, senza la pretesa di risolverlo; la seconda, di aiutarmi a capire come guardare soprattutto quei malati che non rispondono più, poiché sono in stato vegetativo o comatoso.
La fedeltà alle indicazioni che ci ha insegnato il movimento per vivere il gesto della caritativa è stata fondamentale per ascoltare la risposta che Dio ha voluto dare a queste domande. Io e Antonella iniziamo il pomeriggio affidando a Maria tutte le persone che incontreremo nella visita e leggiamo un piccolo brano da «Il senso della caritativa» di Giussani o da altri testi di Massimo Camisasca e di Paolo Sottopietra.
La prima persona che ho conosciuto a settembre è stata Savina, una donna malata di Alzheimer e Parkinson, in stato vegetativo. Il marito Pietro l’accompagna ogni giorno e la accudisce con una devozione commovente. Appena siamo entrate nella sua stanza, ho pensato che Dio mi stesse chiamando a coinvolgermi con quelle persone. Nel primo incontro, all’accoglienza titubante e interrogativa di Pietro è corrisposto da parte nostra qualche istante d’imbarazzo. Poi, guardando il corpo infermo di Savina, ho capito quanto sia stata fondamentale l’adorazione eucaristica vissuta in questi anni in casa. Cristo, misteriosamente presente in un pezzo di pane, è presente anche in quel corpo inerme. Forse con un poco d’incoscienza, ho proposto a Pietro di prenderci l’impegno di recitare una decina del rosario ogni venerdì: la sua risposta sempre più incredula, ma affermativa.
Settimana dopo settimana è cresciuto un grande affetto tra noi, Pietro e Savina. Pietro, ormai, dopo un quarto d’ora di chiacchiere iniziali, ci richiama sempre all’ordine: «Mo’ dovemo lavorà!» ed estrae da un piccolo astuccio il rosario che gli ho regalato qualche settimana dopo il primo incontro. La decina si conclude invocando i nostri angeli custodi.
È sorprendente come l’assenza della parola o l’impossibilità di valutare lo stato di coscienza di una persona mi portino a pensare all’anima di chi ho di fronte. Un’anima che si percepisce nei lunghi dialoghi silenziosi con Savina, guardandola negli occhi mentre recitiamo le Ave Maria.
Dal rapporto con una persona così, che molti non definirebbero più tale, può scaturire tanto bene. Standole a fianco e accarezzandole la fronte, penso a me, a lei, agli angeli e ai santi che circondano quel letto; penso al dialogo misterioso che Dio ha intrapreso con le anime di quella donna e di suo marito. Non so se Savina capisce quello che succede intorno a lei, ma sono certa che niente di ciò che avviene in quella stanza andrà perduto. Sarà bellissimo incontrarsi in Paradiso e ritrovarsi come amici di lunga data, che hanno condiviso per qualche tempo solo l’Essenziale.
Più vicini all’anima
In caritativa presso una casa di cura, a fianco di una persona in stato vegetativo, affidandola a Maria.