Nei sacramenti la salvezza e la misericordia di Dio ci raggiungono, soprattutto nella sofferenza e nella malattia. Una testimonianza da Città del Messico.

“¡Que dicha padre que haya venido! Porque no es usted, es el Señor que ha venido. Hay tantos enfermos como yo, que no pueden recibir al Señor, y ¡yo sí, pude! ¡Que dicha! Ahora puedo morir en paz”. La signora María del Refugio riassume con poche parole, che brillano tra i singhiozzi e le lacrime, la verità bella e semplice dei sacramenti. “Che felicità, che gioia!” ripete varie volte; e poi quel finale – “Adesso posso morire in pace” – che mi ricorda tanto il profeta Simeone di fronte al bambino Gesù.
In queste ultime settimane, ho ripreso a ritmo battente le visite ai malati. Si tratta soprattutto di persone anziane come la signora Maria, che da circa un anno non escono di casa, non ricevono la comunione, non si confessano. Molti di loro si spengono per la tristezza, per la mancanza di rapporti umani, di amore. Martino, il seminarista della Fraternità che è qui con me, mi aiuta in questo servizio. Telefoniamo loro per proporgli la visita. Quasi sempre, rispondono: “Sarà prudente? Con questa situazione…”. Li tranquillizziamo, assicurando che saremo cauti, e in molti il desiderio di ricevere il Signore vince sulla paura.
Quando arrivo a casa loro, è una festa: inizia la confessione che normalmente si trasforma in un monologo da cui emerge un fiume di ricordi, aneddoti, gioie e rimpianti. Ascolto con pazienza – sono mesi che non vedono nessuno! –, e mi stupisco sempre nel riscoprire come ogni persona è un mondo. Poi, l’unzione e la comunione. Dentro quel fiume di ricordi, arriva una Presenza buona che tocca il cuore e lo sana. Sui volti stanchi ho visto apparire sorrisi di bambini.
La pandemia ha fatto saltare i limiti parrocchiali. Sono pochi i preti che vanno a dare l’unzione ai malati; alcuni, addirittura, non hanno nemmeno riaperto la chiesa, sebbene non ci siano divieti ufficiali. È il motivo per cui a volte devo andare anche in case e ospedali lontani: permettere che le persone si riconcilino prima dell’incontro finale.
È successo con Felipe de Jesús, malato terminale, ricoverato nel nord di Città del Messico, a circa un’ora da casa nostra. La famiglia chiama cinque parroci delle chiese vicine: solo uno risponde. Dà la sua disponibilità, però chiede loro di aspettare una settimana… Sono troppi sette giorni per un moribondo. Il figlio del signor Felipe è del movimento, vive a San Francisco. Gli viene l’idea di scrivere alla segreteria di Cl del Messico, per chiedere se conoscono un prete che possa visitare suo padre. Così mi arriva la richiesta, e una domenica pomeriggio io e Martino ci mettiamo in macchina.
Arriviamo al grande ospedale pubblico, vado al Pronto Soccorso, chiedo del letto 38, e… sorpresa! Non può entrare nessuno! Supplico l’impiegato, gli mostro il clergyman che indosso, niente. Come ultima possibilità, mi invia ad un ufficio di “servizi sociali” per chiedere il lasciapassare. La signorina alla scrivania mi dice: “E’ impossibile, ci sono tanti pazienti Covid! È per il suo bene”. Mi rassegno, torno al Pronto Soccorso e inizio a pregare davanti ai vetri satinati, per mandare una benedizione da lontano al signor Felipe. Detto fatto, si aprono le porte e una dottoressa mi chiede gentilmente di passare: “Avanti, padre! E già che c’è, visiti tutti i malati! C’è tanto bisogno di una benedizione…”.
Il signor Felipe de Jesús è morto poco dopo, nella grazia del Signore, nei primi vespri della solennità del suo santo. È il primo martire messicano, del secolo XVI. Nella comunione della Chiesa e dei santi, quattro secoli sono come un giorno.

 

Davide Tonini è parroco di Maria Inmaculada, a Città del Messico. Nella foto, durante un momento di festa con i parrocchiani.

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