Il compito dell’educatore, dalla scuola al caffè con un amico: testimoniare che si può vivere all’altezza dei propri desideri.

Tante volte, per spiegare i motivi che lo hanno spinto ad insegnare religione al liceo, don Giussani ha raccontato dell’incontro con alcuni ragazzi, avvenuto per caso, in treno. Avendo iniziato una discussione sul cristianesimo, è rimasto sorpreso dalla loro «enorme, cosmica e spaventosa ignoranzaIl loro scetticismo, il loro atteggiamento derisorio, la loro miscredenza non faceva rabbia, ma pena. Da lì è nato il desiderio che conoscessero quello che a me era stato dato».

Rileggo spesso queste parole, da quando le ho trovate nella biografia scritta da Savorana. Mi pare che la situazione di oggi non sia tanto diversa da quella di allora. Anche oggi l’ignoranza è sconfinata, la lontananza terribile. E più me ne accorgo, più sento struggente il desiderio che tutti possano incontrare il Signore. Penso a una mia alunna del liceo. Quando le ho chiesto se conoscesse il nome di qualche martire, mi ha risposto: «Giuda», e vedendomi un po’ perplesso si è corretta: «Ponzio Pilato!». Ma è proprio lei che qualche giorno fa mi ha fermato fuori da scuola per raccontarmi della sua famiglia e avere dei consigli. «Perché ti rivolgi a me?» le ho domandato. «Perché è l’unico che mi può capire. Anzi, che mi può spiegare».

È una ragazza vivace, piena di ferite e di voglia di vivere. Non tutti sembrano come lei. A volte i ragazzi appaiono svogliati, inerti, disinteressati a tutto, specialmente a se stessi. «È come se fossero stati investiti dalle radiazioni nucleari» ha detto Giussani nell’87. Ma lui sapeva che sotto la cenere della superficialità brucia di continuo il fuoco del desiderio. E diceva: «Dove si può ritrovare la persona? La persona ritrova se stessa in un incontro vivo, vale a dire in una presenza in cui si imbatte e che sprigiona un’attrattiva. Quella presenza ti dice: esiste quello di cui il tuo cuore è fatto». Ecco il ruolo bellissimo e drammatico dell’educatore. Preso dalla bellezza di Cristo, egli testimonia che si può vivere all’altezza dei propri desideri. E diventa così il custode della speranza.

È un compito grande, che a volte mi spaventa, perché conosco i miei limiti e miei molti peccati. Ma da Giussani ho imparato che i ragazzi non cercano adulti perfetti, bensì uomini veri, presi da qualcosa di grande. E che conta soltanto appartenere alla Chiesa, lieti della propria vocazione: «Iddio mi prende come sono e io resto quel che sono. Allora è come se uno sorridesse, con il cuore pieno di dolore».

Giussani mi ha insegnato ad avere stima dell’altro, perché ha sempre avuto stima di me. Ricordo il giorno in cui, in università, iniziammo a lavorare su Il senso religioso. Ero il responsabile della comunità, e avrei dovuto tenere l’incontro di presentazione del libro. Però non ero preparato, perché c’era don Pino, e sapevo che avrebbe parlato lui. Solo che la sala era già piena e don Pino non arrivava. Cominciavo a preoccuparmi sul serio. Ma don Pino finalmente comparve. Correva, sventolando un foglio bianco che teneva nella mano, e gridava: «Ha scritto, ha scritto!». Era stato da Giussani. Gli aveva detto del nostro incontro e lui aveva scritto una lettera per noi. Per me, io credo. Mi diceva di non voler costringere alla persuasione nessuno e mi invitava a paragonare ogni cosa con la mia esperienza. Mi chiedeva soltanto di essere leale.

Stimare l’altro significa amare la sua libertà e rispettare i suoi tempi, conosciuti soltanto da Dio. Non è sempre facile. «Preferiremmo prenderli per il collo e portarli dove debbono andare. Preferiremmo andare contro la loro libertà di scelta. L’unica cosa che può placare quest’ansia è che c’è Uno che li ha voluti, che ha stretto alleanza con loro, dando loro l’essere. E allora metto nelle mani di Dio questi scavezzacolli, senza pretendere, senza arrabbiarmi. Si chiama pazienza». È una pazienza attiva, piena di iniziativa, di attesa e di preghiera. Penso a Marco, che ha smesso di venire con noi quattro anni fa. Gli telefono spesso, ogni tanto esco con lui per prendere un caffè, mantengo un filo di rapporto. A Natale mi ha scritto una lettera: «Lei mi parla di una Presenza evidente per la quale vale la pena vivere. Io la riconosco a stento. Non sono convinto che sia possibile essere felici in questa esistenza terrena. Eppure, nella nostra amicizia, una felicità la riconosco».

Educare significa riscoprire la grande speranza che sostiene la propria vita, ritrovandola nell’incontro coi ragazzi. È un lungo viaggio, per usare un’espressione di don Massimo. E io sono contento di poter viaggiare, guidato da maestri che non mi lasciano mai.

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