Recentemente ho avuto l’occasione di passare cinque settimane lavorando presso il carcere minorile di Casal del Marmo, dove la Fraternità è presente da diversi anni, soprattutto grazie a don Nicolò, nostro vicerettore, che collabora con padre Gaetano, il cappellano dell’istituto penitenziario. Nicolò ha proposto a me e ad altri tre seminaristi di impiegare parte della nostra estate per imbiancare le celle e le zone comuni del carcere. A Marcello, imbianchino a riposo e amico della Fraternità, è toccato l’onere di dirigere i lavori e insegnarci il mestiere. Con noi hanno lavorato anche due gruppi fissi di giovani detenuti, in modo che potessimo passare più tempo possibile con loro e avere lo spazio per la nascita di un rapporto.
Mi è stata proposta questa caritativa soprattutto perché io imparassi ad incontrare anche chi è radicalmente diverso da me. Effettivamente, la mia paura iniziale era proprio che tra me e i ragazzi ci fosse una distanza troppo grande, un vallo incolmabile. Io, di mentalità un po’ borghese, cresciuto senza che mi mancasse nulla, cos’ho da spartire e condividere con quei ragazzi dal passato turbolento? Quale ponte posso gettare?
Questo timore, però, è svanito subito. È vero, sono ragazzi abituati a reagire con istintività, a volte con violenza. Nel breve periodo dei nostri lavori, sono state bruciate tre celle, abbiamo assistito a una rissa e ad altri disordini. Per questi episodi almeno una mezza dozzina di ragazzi è passata dalle celle d’isolamento, con ovvie ripercussioni sullo svolgersi del lavoro. Eppure, chiacchierando con loro, ascoltandoli parlare, non c’è voluto molto perché quegli atteggiamenti si rivelassero delle richieste d’attenzione: delle maschere sotto le quali abbiamo trovato le loro ferite e i loro drammi.
Per esempio Mario, che, dal momento in cui ha scoperto che sono interista, ha cominciato a cantare scherzosamente, ma ossessivamente, insulti contro la mia squadra, e lo ha fatto ogni volta che gli sono passato di fronte, per cinque settimane. Non c’era cattiveria o provocazione. Stava solo esplicitando, inconsapevole, un gran bisogno di essere guardato, di essere considerato e riconosciuto nel suo valore. La stessa esigenza che un momento dopo lo portava a invitarci a cena, «appena esco ovviamente», perché «dovete sentire che piatti zingari fa mia nonna». Mi ha fatto pensare a tutte le volte in cui anch’io, in altre forme, cerco un riconoscimento nello sguardo degli altri.
Stare con loro è stato spesso come stare allo specchio. Certamente le loro storie sono più drammatiche e i traumi più profondi: a differenza di Giulio, quando avevo quattordici anni non ho attraversato il Mediterraneo su un barcone. E da piccolo mio padre non mi ha insegnato a spacciare, come ha fatto il padre di Andrea. Non ho questo passato, eppure mi trovo addosso la loro stessa istintività, il loro bisogno di difendersi con una maschera, la loro richiesta di attenzione. Ho realizzato che abbiamo cuori identici, ugualmente fragili e mendicanti di un amore fedele che guarisca queste nostre insicurezze. Nel Movimento l’ho sentito dire in mille circostanze, ma mai come a Casal del Marmo ne ho fatto esperienza così concreta. Ecco il ponte, allora: si può forse avere paura d’incontrare chi è fatto come te?
Nella foto, un momento di pausa dai lavori nel carcere minorile di Roma