Don Federico Ponzoni racconta la sua gioia nell’essere sacerdote e nell’amministrare il sacramento della confessione.

Ho un ricordo molto chiaro della mia prima confessione. Ricordo dove accadde, ricordo le circostanze in cui accadde, ma soprattutto ricordo distintamente che quel fatto lasciò nella mia vita una traccia indelebile. Grazie alle maestre della mia scuola, che ci avevano preparato e che ci avevano guidato nel fare l’esame di coscienza, ero arrivato al momento della confessione cosciente dei miei peccati, triste per aver commesso il male e pieno di attesa. Aspettavo con ansia di poter mettere i miei peccati nelle mani di Dio e di scoprire che cosa il suo amore aveva in serbo per un peccatore come me.

Avevo otto anni. Ciò che Dio aveva in serbo per me era inaspettato. Quando terminò la confessione e ricevetti l’assoluzione una gioia e una pace profonda invasero il mio cuore. Strano e inaspettato: vergogna, senso di colpa, paura, tutto cancellato. Nel mio cuore c’era posto solo per pace e gioia.

Ciò che successe quel giorno non l’ho più dimenticato. Anche se non sempre, quando mi confessavo avvertivo la stessa pace e la stessa gioia. Esse erano tanto più percepibili quanto più ero cosciente del valore del sacramento, quanto più lo avevo desiderato. C’era un altro fattore, però, che poteva facilitare il sorgere della pace e della gioia: il sacerdote. C’erano preti che, chissà come, ti facevano quasi toccare con mano la misericordia di Dio.

Anni dopo, quando la voce discreta di Dio si faceva sentire chiamandomi al sacerdozio, scoprii che i preti sono Servitori della vostra gioia, come si intitola un bel libretto di Ratzinger. Il prete esiste perché i suoi fratelli uomini siano felici, gioiosi, lieti. Il prete può e deve portare agli uomini la pace e la gioia che si trovano in Cristo Gesù. E mi tornò in mente la gioia del perdono ricevuto in tante confessioni.

Forse è per questo che in seminario, fra le storie dei santi, ho amato particolarmente quelle dei preti che passavano tanto tempo in confessionale: padre Pio, il Curato d’Ars, padre Leopoldo Mandic. Come se Dio mi chiamasse a donare la sua gioia agli uomini in particolare in confessionale, ascoltando i loro mali, le loro colpe, i loro drammi. Cercando di essere un buon prete, cioè tramite credibile della misericordia di Dio.

Cerco di passare in confessionale più tempo possibile. Anche perché in confessionale imparo sempre qualcosa: ogni persona che viene a confessarsi è unica e irripetibile, perciò bisogna trovare parole, gesti, modi di esprimere la misericordia di Dio altrettanto unici e altrettanto irripetibili. Lo Spirito Santo aiuta sempre, e uno si trova a dire cose sempre nuove, sempre diverse. In confessionale si impara sempre qualcosa di nuovo sulla misericordia di Dio. Non c’è niente di magico in questo, è solo che tutto trova nel confessionale una sintesi nuova. Anche i miei peccati, anche quelli che odio di più, servono. Se un penitente, infatti, mi confessa lo stesso mio peccato che mi disturba tanto, allora sono capace di trovare le parole più adeguate per fargli sentire quella misericordia che io stesso ho tante volte sperimentato. Perfino gli studi apparentemente più distanti si rivelano utili: da Derrida, un filosofo fondamentalmente ateo, ho imparato che in alcuni casi è necessario decostruire, cioè sovvertire, reinventare, il racconto del penitente.

In confessionale torniamo così a scoprire che tutto è buono, tutto è positivo, tutto vale la pena, perché nulla può opporsi alla infinita creatività della misericordia di Cristo.

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