Carissimi amici,
in questi ultimi giorni siamo immersi nei preparativi per la visita pastorale del nostro vescovo mons. Joaquín e del suo ausiliare mons. José: staranno con noi due settimane e visiteranno tutte le attività delle nostre parrocchie. Vi lascio immaginare il fermento delle nonnine…
Ho da poco tempo finito la prima sessione di esami nella mia università, e devo dire che sono andati sorprendentemente bene, visto il poco tempo che ho potuto dedicare allo studio. Ad ogni modo, alcuni dei corsi che sto seguendo sono molto interessanti, soprattutto perché mi stanno facendo riflettere sull’Europa, sulla sua storia e sulla crisi culturale che stiamo attraversando.
Anche nella scuola in cui insegno, le cose vanno bene: ogni volta che vado a fare lezione ai ragazzi del liceo, cerco di passare un po’ di tempo anche con i bambini più piccoli, quelli delle elementari, un po’ perché mi fa piacere ma soprattutto perché le insegnanti vogliono “approfittare” della presenza di un sacerdote e mi cercano molto.
Voglio raccontarvi in particolare una cosa che ultimamente mi ha colpito e sta alimentando il mio silenzio: la confessione. Sempre più spesso, infatti, mi succede di trovare nel confessionale persone che da molti anni non si avvicinano al sacramento. Di solito non faccio domande quando confesso, e quindi non so esattamente come accada, e per quale ragione, che dopo tanto tempo uno si sblocchi e decida di tornare a confessarsi. Ma è evidente che c’è qualcosa di oggettivo nel nostro cuore che riconosce il male e ha bisogno di sapere che esiste Qualcuno che ti perdona.
Non succede di rado che durante queste confessioni il penitente non regga il peso accumulato durante tanto tempo e si metta a piangere. Sinceramente anche per me è difficile non farlo: sono momenti di tale trasparenza davanti a Dio, tanto veri e sinceri, che non possono lasciare indifferenti.
Una volta una persona, che ha vissuto per molti anni lontana dalla Chiesa, appena uscita dal confessionale rientra e mi dice: “Padre, ma sei proprio sicuro che Dio mi ha perdonato?”. “Sì” gli dico, “è un regalo che il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Quando uno si confessa è Dio che ti perdona”. “Ma non devo fare nient’altro? Sono proprio già perdonato?”. “No. Non devi fare nient’altro. Si chiama misericordia”. Scoppia a piangere, e non smette di ripetere: “Grazie. Grazie. Grazie”. Tutti quei “grazie” mi sono rimasti impressi, e a poco a poco stanno diventando miei. Grazie anzitutto per la mia vocazione, perché mi permette di vedere da un punto di vista speciale che esiste un amore sempre più grande e più forte del male, del tradimento, della dimenticanza.
Credo che questi episodi siano uno dei frutti più belli che Dio mi regala, proprio dopo l’anno della Misericordia, proprio nel mio primo anno di sacerdozio.
Nella foto, don Stefano Motta con alcuni ragazzi nella parrocchia di San Juan Bautista, a Fuenlabrada (Madrid, Spagna).