I miei parrocchiani sono rimasti colpiti quando ho fatto loro notare che un prete – non diversamente da qualsiasi altro battezzato cattolico – deve andare a confessarsi da un altro sacerdote.“I can’t absolve myself in the mirror”: non posso mica assolvermi da solo allo specchio, ricordo di aver detto loro. Per me è fondamentale. Non posso amministrare la misericordia del Signore se io stesso non la desidero, se non mi smuovo da sotto il peso dei miei peccati, limiti e difetti, se non vado ad attingere, io per primo, alla fonte del perdono che Gesù ha aperto sulla croce.
Grazie al fatto che devo ascoltare spesso le confessioni altrui, vengo costantemente esposto all’evidenza che nulla ci può separare dall’amore di Dio se non la smemoratezza e la cocciutaggine nel pensare di salvarsi da sé. Occorre proprio andare da un altro, invece.
Così oggi mi incammino tra le foglie dell’autunno fiammeggiante del Massachusetts che sventagliano sui marciapiedi e sugli alberi di Somerville, subito dopo la messa ed il silenzio del mattino, per raggiungere la stazione della metro di Davis Square. C’è un elemento di pellegrinaggio in questo “dover andare”. Tra l’altro, la mia meta è proprio un santuario. Cammino svelto per poco meno di un chilometro, per scendere nella vecchia metropolitana di Boston, aggredito dalle vibrazioni dei treni in galleria e dalla ostilità reattiva delle persone costrette ad affollarsi in spazi ristretti; il treno della linea rossa sferraglia fino giù a Downtown Crossing, in centro.
A pochi passi, c’è il Saint Anthony Shrine, la casa dei francescani di Boston. Ci vivono tanti sacerdoti in pensione che si danno il cambio ogni giorno in confessionale. È più facile qui trovare un confessore, specie per un altro sacerdote, che di solito deve ascoltare le confessioni altrui negli orari più comodi ed usuali.
Sono talmente grato che siano lì, che ho preso l’abitudine di ringraziare il sacerdote che, a scadenza almeno mensile, riceve il fardello dei miei peccati e li dà a Gesù. Forse l’immagine è un po’ burocratica e grigia, ma siamo come impiegati delle poste, noi confessori. D’altronde, ogni confessore/confessante dopo un po’ si rende conto di quanto grigi, ripetitivi e davvero poco eccitanti siano i peccati, nostri e altrui. Ma nella misericordia si compie un vero miracolo, per cui ciò che è sordo e gravoso, quando ci viene tolto di dosso, rivela grazia e bellezza.
Come risplende, spesso, la persona dopo la confessione; capita che il penitente pianga o rida, è raro che sia indifferente. In tempi in cui tutti siamo assediati da troppi gesti banali, o di cui comunque abbiamo smarrito il senso e il valore, la confessione è esercizio estremo che ancora ci gratifica di emozioni forti e vere, perché non accade mai senza un risveglio, senza la mia ribellione contro il non senso e la rassegnazione.
Il penitente è un poveraccio che soffriva di amnesia, ma qualcosa gli ha finalmente rammentato chi è veramente: il figlio del re. Allora si alza e ricomincia il viaggio verso la casa del Padre. Come confessore, ovviamente, non posso raccontare le storie delle persone che si accostano al sacramento della riconciliazione, ma è un privilegio poter assistere al miracolo che il perdono sacramentale compie in me e nelle persone che attraverso di me lo ricevono. E potere assistervi, sia come confessore che come penitente, mi offre una prospettiva di cui sono davvero grato. Sono in ginocchio nel confessionale, con la testa contro la grata: “Forgive me, Father, for I have sinned…”, “Sono sacerdote e questi sono i miei peccati…”. Un paio di volte mi è anche capitato che il mio confessore mi chiedesse a sua volta di ascoltare la sua confessione: che cosa bella e strana poter dare e ricevere misericordia grazie alla presenza di Gesù sacramentale, nella confessione e nell’ordine sacerdotale!
Il rigurgito dei miei peccati si trasforma in una litania triste e risaputa. Il vecchio frate accetta con francescana letizia che reciti il Gesù d’amore acceso alla fine della mia confessione. Gli chiedo il permesso di dirlo in italiano perché, nonostante i tredici anni d’America, riesco a pentirmi davvero solo nella lingua materna. Da buon seguace di san Francesco, l’anziano sacerdote mastica l’italiano abbastanza e mi lascia bonariamente fare. Poi arriva l’assoluzione, sorprendente, mai scontata, come uno capisce bene dopo decenni in compagnia di se stesso peccatore. “Grazie, padre, di essere stato qui ad ascoltare la mia confessione, quest’oggi”. Ci scambiamo saluti e promesse di preghiere l’uno per l’altro e per le nostre comunità.
La metropolitana mi inghiotte di nuovo per risputarmi, un po’ come Giona, ad un chilometro dalla mia parrocchia. Mi incammino verso casa, con la rinnovata consapevolezza dell’oceano di misericordia che sta dietro ogni sacerdote seduto in un confessionale. Persino dietro di me, peccatore.
Nell’immagine, un parco di Boston, Massachusetts (foto sushiesque – flickr.com).