Siamo stati chiamati dal nulla e la nostra vita si svolge davanti all’eternità: ecco perché il popolo cristiano può vivere la gioia anche dentro la sofferenza.

Nei mesi scorsi sono tornato, dopo tre anni dalla mia ultima visita, a Taiwan, luogo in cui ho trascorso sei anni di missione e a cui mi sento ancora molto legato. Ho passato i primi quindici giorni in quarantena, senza che nessuno dei vecchi amici sapesse che ero arrivato. Quando finalmente ho potuto rivedere la luce del sole, ho incontrato tanta gente che, quando mi ha visto, ha chiamato a gran voce il mio nome cinese: “Xiè Shen fu!”. Così ho sperimentato, una volta di più, quanto sia bello essere chiamati per nome.
Quando qualcuno dice il tuo nome ti ricorda che sei unico ed è come se approvasse la tua esistenza, ti dicesse che la tua vita, ai suoi occhi, ha un valore.
Sentire chiamare il tuo nome ti aiuta a fare memoria di chi sei: ti ricorda da dove vieni, che hai quel nome perché lo ha scelto, per te, qualcun altro e ti dà così l’occasione per ringraziare della tua storia, o, al contrario, per riconciliarti con essa, con il tuo passato, con la tua famiglia.
«Il nome è l’incontro tra il tempo e l’eternità» dice Alessandro D’Avenia nel suo ultimo romanzo. La prima volta che siamo stati chiamati per nome, è stata, infatti, quando Dio ci ha creati, traendoci dal nulla: quindi, quando uno mi chiama per nome è come se mi creasse di nuovo. Allo stesso modo, quando siamo noi a chiamare per nome una persona, la nostra voce diventa l’eco della voce di Dio.
Così è accaduto quando Gesù ha chiamato a sé gli apostoli e loro lo hanno seguito: è come se quell’incontro fosse stato, per loro, l’inizio di una nuova creazione. Anche a noi è successa la stessa cosa, il giorno del nostro battesimo. Ma questo incontro può riaccaderci tutti i giorni e tutti i giorni possiamo lasciare le nostre reti e seguirlo.
A Taiwan, tra gli amici che abbiamo incontrato da quando è iniziata la nostra missione lì, c’è anche una famiglia venuta dall’Italia quasi quindici anni fa, quando i due giovani sposi, legati all’esperienza del Cammino neocatecumenale, si sono sentiti chiamati alla missione per rinascere in una nuova terra. Oggi hanno sei figli e sentono quella come la loro casa. In un libro che racconta questa storia, descrivono la chiamata come un gesto d’amore alla loro vita, perché «come dice don Giussani, Cristo non ama tutti, ama ciascuno» e il modo con cui Cristo esprime questo amore che ti ricrea è dare ad ognuno un compito.
Nel Vangelo c’è un momento, in particolare, dove questa chiamata a rinascere è descritta in maniera ancora più evidente ed è quando, il mattino di Pasqua, Gesù chiama la Maddalena con il suo nome, “Maria!”, strappandola dalla tristezza, dalla sua disperata solitudine, dal pensiero che la morte sia l’ultima parola sulla vita. Così, la risurrezione di Cristo investe anche tutta la vita di quella donna: chiamandola per nome, Gesù non cancella dalla memoria della Maddalena né la Sua propria morte, né il ricordo di quelle ore terribili di prova e di dolore, ma le mostra che c’è una compagnia, la Sua, che non smette di ricrearla e riconsegnarla alla vita, affidandole il compito di essere testimone della vittoria sulla morte e sul male.
Nei due mesi della mia permanenza a Taiwan, la nostra cara amica Xiao Ping, che poco dopo avere ricevuto il battesimo, sei anni fa, ha scoperto di essere affetta da una malattia inguaribile, parlando di sé e del nostro don Anas, che allora era ricoverato in terapia intensiva a causa della pandemia, mi diceva: “Ora, io e lui stiamo vivendo il nostro inverno, un tempo in cui tutta la nostra vitalità sembra spegnersi. Ma dopo l’inverno, ci aspetta la primavera, per rinascere ad una vita nuova in cui nuovamente torneremo a fiorire per non morire più”.
Questo è il cristianesimo: un inno alla vita che non censura la morte e la sofferenza. Abbiamo bisogno anche noi, ogni giorno, di qualcuno che ci chiami per nome, che entri nella nostra vita come una presenza concreta, tangibile, che salvi tutto il nostro passato e apra una prospettiva eterna al tempo che ci aspetta. Questo è anche il senso del nostro essere cristiani e missionari nel mondo.

 

(Nell’immagine, Antonio Anastasio celebra la santa messa durante una vacanza in montagna – foto di Carlo Colombo).

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