Zhang Jun Wei è entrato per la prima volta in una chiesa nel 2015, a 25 anni. E lo ha fatto per stringere uno strano patto con Dio: «Gesù, se tu mi fai passare il colloquio di lavoro, io prometto di farmi cristiano», ha pregato rivolto al crocifisso. Come la stragrande maggioranza dei taiwanesi, di quello strano uomo appeso a una croce conosceva poco o niente. Al massimo una barzelletta, che circola a Taiwan: «C’è un bambino disobbediente che nessuno riesce a mettere in riga. I genitori, disperati, lo mandano alla scuola cattolica e quando torna è un bambino modello. Gli chiedono perché sia cambiato e lui risponde: “Perché se non diventi buono ti fanno fare la fine di Gesù”».
In questo piccolo angolo dell’Estremo Oriente i cattolici sono una piccola minoranza, appena 150 mila, meno dell’1 per cento della popolazione, e Gesù è ancora uno sconosciuto. Nei coloratissimi templi presenti a ogni angolo di strada si pregano centinaia di altre divinità. A Taipei le più famose sono Mazu, la dea del mare, protettrice dei pescatori, Guanyin, dea della misericordia, Guangong, famoso generale cinese difensore tanto dei poliziotti quanto dei criminali, e Tudigong, che porta in dote ricchezza e fortuna. Si tratta in molti casi di uomini e donne, leggendari o realmente esistiti, che per le loro qualità spirituali o per le loro gesta sono diventati oggetto di venerazione. Secondo gli studiosi, il pantheon taiwanese è molto affollato, con oltre 30 mila dei.
La religione tradizionale, che a Taiwan va per la maggiore, è sincretista e non fa distinzione tra divinità taoiste e buddiste: a tutte indistintamente si offrono cibo e incenso e, in giorni codificati del calendario lunare, si fanno i cosiddetti “bai bai”, riti di adorazione che servono sia a lucrare favori e benedizioni, sia a tenere lontana l’ira vendicatrice degli dei.
Il bancomat nel tempio
Come tutti, Jun Wei era abituato a compiere i riti per prendersi cura dei suoi antenati – ai quali bisogna offrire cibo e bruciare soldi finti di carta dorata in un braciere per garantire che vivano bene nell’aldilà e non tornino sulla terra a tormentare i parenti irrispettosi – e andava al tempio prima di un esame o per domandare di avere fortuna. Esiste un rito quasi per ogni cosa a Taiwan e raramente è gratis: non a caso all’ingresso del caratteristico tempio Longshan, il più famoso di Taipei, campeggia in bella vista un bancomat. Ma in una società perfettamente occidentalizzata e ammorbidita dal benessere come quella di Taiwan, il dio supremo, in fondo, è il denaro. Per questo i riti sono tanto più seri quanto più è alta la posta economica in gioco: nessuno a Taiwan costruirebbe mai una fabbrica, un palazzo o un albergo prima di capire, con l’aiuto di un sacerdote taoista, se gli dei sono d’accordo.
Perfettamente inserito nella cultura confuciana, che impone di obbedire ai genitori senza mai chiedere spiegazioni, Jun Wei non si è mai interrogato su quei riti. «Farli spesso e nel modo corretto è molto importante, altrimenti le divinità possono vendicarsi e farti del male. Chi sbaglia viene punito e io avevo sempre paura», racconta a Tempi. Jun Wei aveva avuto anche una difficile esperienza in famiglia: «Mia cugina sosteneva di essere posseduta da una divinità e noi dovevamo fare tutto quello che diceva, altrimenti ci avrebbe lanciato delle maledizioni».
«Mi aveva colpito il fatto che Gesù non ti punisce, ma ti aiuta e ti consola»
Terrorizzato dai capricci divini e spaventato dalla cugina, dopo essersi laureato in Scienze politiche e aver conseguito un master, alla vigilia di un importante colloquio di lavoro, Jun Wei ha deciso di disertare il tempio e di entrare in una chiesa. «Ho frequentato le scuole cattoliche e ricordo che ai muri erano affisse delle frasi del Vangelo. Mi aveva colpito il fatto che Gesù non ti punisce, ma ti aiuta e ti consola».
«Ho scoperto che la vita ha un senso»
È a quel Dio così stranamente umano e misericordioso che Jun Wei si è rivolto, in un momento cruciale della sua vita, nell’unica modalità che conosceva: proponendogli uno scambio. Gesù ha fatto la sua parte, il colloquio è andato bene, e in una domenica di fine dicembre Jun Wei ha mantenuto la promessa: è entrato nella piccola chiesa di San Francesco Saverio a Taishan, nella grande periferia della capitale, immersa in un mercato chiassoso e caotico, dove con grande sorpresa ha incontrato dei giovani preti italiani.
Si tratta dei missionari della Fraternità San Carlo Borromeo, fondata da monsignor Massimo Camisasca, che aveva aperto da pochi anni, il 15 settembre 2001, una missione nella capitale Taipei su invito del vescovo Joseph Ti Kang. Nel febbraio 2005, il successore Joseph Cheng Tsai-fa aveva affidato loro la parrocchia di Taishan. È assieme a don Emanuele Angiola, originario di Cuneo, che prima di entrare in seminario si esibiva come tenore alla Scala di Milano, che Jun Wei ha capito che il Dio cristiano è molto diverso da ciò a cui era abituato: «Io sono entrato nella Chiesa per contratto, perché Gesù mi ha fatto trovare lavoro. Solo dopo ho capito che la fede c’entra con tutta la vita. La cosa davvero curiosa è che dopo aver ricevuto il battesimo nella Pasqua del 2017 ho perso il lavoro. Ma sono rimasto ugualmente nella Chiesa, perché la fede è la cosa più importante della mia vita adesso: finalmente ho scoperto che la mia esistenza ha un senso».
Le vie di Dio tra i pagani
La «rinascita» di Jun Wei, come lui la definisce, non è avvenuta da un giorno all’altro, non è stata frutto di una magia ma di un cammino di conoscenza graduale insieme alla comunità. È incontrando a Taipei il movimento di Comunione e Liberazione, guidato dai missionari della San Carlo, che «il seme piantato in me con il battesimo è cresciuto, diventando una pianta con radici solide».
Oggi Jun Wei controlla la contabilità in una compagnia di smaltimento di rifiuti di Taipei. Quando la sua ditta compie i riti alle divinità, lui non partecipa «né loro mi obbligano a bruciare soldi finti o a fare i bai bai». In famiglia prega per gli antenati, ma non si inchina né brucia l’incenso alle divinità dell’altarino presente in casa. «Ho anche smesso di odiare mia cugina, anche se è stata dura all’inizio accettare l’idea di potermi ritrovare un giorno in paradiso con lei». Come nome di battesimo, ha scelto Pietro: «Anch’io, come lui, tradisco Dio in continuazione. Mi rendo conto di essere debole, ma vorrei avere la sua stessa forza di affermare che lo amo nonostante tutto».
Sono tante le persone che a Taiwan, come Jun Wei, hanno scoperto la fede grazie ai missionari della San Carlo. «La gente qui vive per il lavoro e per i soldi, è immersa nel paganesimo, ma Dio trova ugualmente il modo di entrare nella loro vita in modo misterioso», spiega a Tempi don Paolo Costa, arrivato da giovane diacono nel 2002 e oggi veterano della missione. «Ogni battesimo in una società e in una cultura così diverse dalla nostra è un miracolo».