Uno degli impegni pastorali che preferisco nella missione a Boston è celebrare la messa serale della domenica al santuario di Our Lady of Good Voyage. Da due anni e mezzo mi trovo lì alle sette di sera almeno due volte al mese. È una delle ultime messe domenicali, per cui buona parte delle persone sedute nei banchi è lì di ritorno dal mare, da una passeggiata in montagna, da una corsa sugli sci, a seconda della stagione. C’è anche un bel gruppo di fedelissimi, soprattutto giovani: ragazzi e ragazze tra i 25 e 30 anni che preferiscono venire a messa la sera della domenica. Sono diventato amico di alcuni di questi: Diana, un avvocato esperto di corporate trading, Joe, un programmatore informatico, Jeffrey, designer, John, un ingegnere. Sono tutti ragazzi cattolici all’inizio della loro carriera professionale. Molti di loro si sono trasferiti a Boston da altre città.
Una domenica dopo la messa chiedo loro se hanno cenato: mi dicono di no. Hanno in progetto di andare fuori a cena con altri due ragazzi venuti a messa apposta, su loro invito, per parlare di una organizzazione cattolica, la YCP (Young Catholic Professonials) di cui Diana e Joe fanno parte. Mi invitano a unirmi a loro e finiamo nella birreria di fianco al santuario.
Durante la cena, Diana e Joe spiegano la storia e la missione della associazione, le attività, i progetti. Anch’io ascolto e faccio domande. Li sento molto appassionati mentre raccontano delle raccolte di fondi o degli incontri con altri giovani cattolici appena entrati nel mondo del lavoro.
Ad un certo punto, faccio loro una domanda: “Cosa vuole dire essere cattolici sul posto di lavoro? Come si gioca la vostra fede nella concretezza della professione?”. Mi risponde un silenzio imbarazzato. Non è la prima volta che mi capita di avere una reazione simile alla stessa domanda: sembra quasi che non sappiano cosa rispondere. Dopo un lungo silenzio, uno di loro inizia a raccontare di come preghi prima di prendere decisioni importanti, di quanto cerchi di essere rispettoso nei confronti degli altri con cui lavora. Un altro prende coraggio e mi parla della stima per il suo capo, un cattolico che dona fondi per aiutare persone in difficoltà. Una ragazza racconta di come abbia scoperto per caso che un suo collega era cattolico. Sono cose buone, fatti importanti e anche belli, ma è come se nelle loro risposte mancasse un punto essenziale. Dovremmo chiederci: la fede ha un impatto reale e concreto sulle cose da fare ogni giorno? Che cosa c’entra la fede con il caso di insider trading che ti è stato affidato, o con il programma che devi scrivere per il computer?
Sembra quasi che “professione” e “fede” appartengano ad ambiti diversi della vita e non abbiano tra loro una reale connessione tra nella vita di questi ragazzi.
Nel testo scelto quest’anno per accompagnare il volantone di Natale di Cl di quest’anno, don Giussani dice: «La commozione della Sua presenza diventa commozione nella vita quotidiana. Non c’è niente di inutile, non c’è niente di estraneo, nasce un’affezione a tutto, tutto, con le sue conseguenze magnifiche di rispetto della cosa che fai, di precisione nella cosa che fai, di lealtà con la tua opera concreta». La fede in Cristo genera un’affezione a tutto e produce conseguenze concrete nelle cose che facciamo.
Di fronte a quei ragazzi, mi sono fatto proprio questa domanda: perché la loro fede non sembra avere un impatto diretto e concreto sulla realtà, perché rischia di rimanere parallela alla vita di ogni giorno? Spesso educhiamo i ragazzi ad essere bravi, gentili, rispettosi verso gli altri. Insegniamo loro ad andare a messa, ad aiutare chi è nel bisogno, a pregare. Sono tutte cose buone, ma più di tutto è importante educarli a vivere la fede, la relazione con Cristo nella concretezza della vita quotidiana.
(Paolo Cumin è parroco di Sacred Heart in East Boston, Usa. Nell’immagine, una veduta della città – foto Nicolas Nova/flickr.com)