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La Chiesa è un’assemblea
di peccatori che si pentono.
(Efrem Siro)
Non c’è salmo che meglio aiuti ad entrare nello spirito della Quaresima del 51 – salmo penitenziale per eccellenza. Con la poesia delle sue immagini e la forza delle sue espressioni, esso ci trascina forse meglio di qualunque altro testo ispirato nel vivo di quel misterioso processo di redenzione del cuore che è l’esperienza della penitenza. Misterioso perché nella penitenza si realizza un’alchimia che ha del paradossale. Da una parte, fare penitenza significa liberamente abbracciare dolore e tristezza. Dall’altra, il frutto di questo “libero affliggersi” è la gioia. Giovanni Climaco ha condensato questo paradosso in uno splendido ossimoro. Egli parla di penthos charopoion, che si può tradurre: afflizione che genera o produce gioia.
Orbene, ad una attenta lettura, si scopre che lo sviluppo del nostro salmo riflette precisamente questa idea centrale. Dopo una breve introduzione (1-2), si ha una prima sezione (3-8) in cui dominano la martellante accusa da parte dell’orante del proprio peccato (peccato 5x; colpa 3x) e l’appello alla misericordia/pietà/bontà divina (3x). Nella seconda sezione (10-17), si fa largo sempre più lo slancio della speranza, quasi l’orante avesse raggiunto nel processo stesso della preghiera la gioiosa certezza d’essere stato mondato e liberato. Il salmo si conclude (18-21) con un elogio dell’uomo che sa umiliarsi e pentirsi del suo peccato.
Nella nostra meditazione non commenteremo l’intero salmo. Ci lasceremo piuttosto aiutare da alcuni versi di questa straordinaria preghiera, che Dio stesso ha ispirato, a riflettere sul mistero della compunzione del cuore – questa dimensione della vita di fede tanto importante e sublime quanto dimenticata e snobbata perché mal compresa.
[1]Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.
[2Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea.
Dal riconoscimento del peccato…
[3]Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
[4]Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
[5]Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
[6]Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.
[7]Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
[8]Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.
…alla dolcezza della speranza
[9]Purificami con issopo e sarò mondo;
lavami e sarò più bianco della neve.
[10]Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
[11]Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
[12]Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
[13]Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
[14]Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.
[15]Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
[16]Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
[17]Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
Finale: elogio del cuor contrito
[18]poiché non gradisci il sacrificio
e, se offro olocausti, non li accetti.
[19]Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.
[20]Nel tuo amore fa grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.
[21]Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.
Pietà di me, o Dio
Innanzitutto mi pare importante soffermarsi sul primo versetto, che ci parla dell’autore e della circostanza in cui questo salmo fu composto:
Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea.
Oggi l’esegesi ha dimostrato che molti elementi del testo sono più tardi dell’epoca davidica così che si tende a spostarne la datazione addirittura a dopo l’esilio babilonese. Nulla ci vieta però di pensare ad un nucleo testuale originario davvero scritto da Davide, con aggiunte successive. Al di là di questa indagine storica, pur importante, ciò che per noi più conta è come la tradizione ebraica prima e cristiana poi lo ha sempre letto e compreso. Questo salmo dà voce al dolore e allo stato di prostrazione interiore che penetra in Davide quando il Signore per mezzo del profeta Natan ha risvegliato il suo eletto dal “sonno”, facendogli prendere coscienza della gravità del peccato che egli ha commesso andando con Betsabea e facendone uccidere il marito (cfr. 2Re 12,1). Il pensiero non può qui che spontaneamente andare ad un altro amaro “risveglio” operato dal Signore: quello di Simon Pietro nel cortile del tempio, al canto del gallo. Nella versione lucana dell’episodio, ci viene infatti raccontato che Pietro non prende coscienza da sé di ciò che ha fatto. È invece lo sguardo di Gesù a destarlo:
E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E, uscito, pianse amaramente. (Lc 22, 60-62)
In questa luce, la ripetizione del verbo andare si rivela tutt’altro che accidentale: Davide è andato da Betsabea e così si è allontanato da Dio. Ma Dio troppo ama Davide per lasciare che questi rimanga lontano da Lui. E così invia il profeta Natan perché vada a scuoterlo, così che Davide possa “convertirsi” e riavvicinarsi al Signore. Alle parole del profeta, infatti, il cuore del re è squarciato come da un colpo di spada. Davide si ridesta e confessa: Ho peccato!.
Comprendiamo così la cruciale importanza di questo primo versetto, solo apparentemente slegato dal resto del salmo: esso ci insegna che chi inizia nel cammino della penitenza è sempre il Signore. Il dolore del peccato o contrizione non è infatti appena il senso di colpa. Perché vi sia contrizione occorre che io re-incroci in qualche modo lo “sguardo” del Signore e sia ridestato alla memoria di quell’Amore che ho tradito e che tuttavia mi perdona.
Poste queste basi possiamo ora passare al versetto 3, il famoso miserere mei con cui si apre la trafila di suppliche dell’orante:
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Fin da subito il salmista dimostra due cose: da una parte un vivo, doloroso sentimento del proprio peccato. Dall’altra la sua confidenza nella misericordia (hesed) e nella bontà (rahamim) del Signore, che egli conosce sia per esperienza diretta sia sulla base della storia del suo popolo [1].
Si può dire che la scintilla della contrizione, che poi diviene grido di supplica, si accende nel cuore grazie al fatto che l’orante tiene simultaneamente nel proprio interiore campo visivo entrambe le cose: il suo peccato e la misericordia di Dio: “Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nel tuo grande amore cancella il mio peccato!”.
Si comprende così dove stia il ruolo attivo della nostra libertà, nel permettere al fuoco purificante della contrizione di accendersi e poi “attecchire” in noi. È come se gli occhi dell’anima dovessero continuamente roteare attorno a questi due centri: il ricordo del peccato, del veleno che è in noi, e la memoria della misericordia di Dio, del suo Amore che perdona e ricrea.
Riconosco la mia colpa
Cominciamo dal primo aspetto: il riconoscimento sincero del nostro male. Quanto spesso il nostro invocare il Signore è senza fuoco, spento, proprio per il fatto che viviamo distratti, dimentichi della nostra miseria! È vero che il sostare troppo a “guardarsi dentro” può facilmente diventare ripiegamento su di sé. Ma c’è un altro rischio che oggi mi pare non meno diffuso, a causa del relativismo in cui viviamo immersi: banalizzare la realtà del male, della sporcizia che il peccato lascia in noi, fino al punto da non percepirne più nemmeno il cattivo odore. Siamo stati educati a non fermarci all’accusa del nostro male. Ma non fermarsi all’accusa del nostro male non significa fingere che non ci sia. Come è facile confondere la fiducia nella misericordia del Signore con la trascuratezza del proprio cuore! Non è forse anche questa una forma di farisaismo?
«Soprattutto non mentite a voi stesso» – dice lo starec Zosima a Fëdor Karamazov – «poiché questa è la causa di tutti i vostri mali». La prima e più grave menzogna è quella di fronte a sé stessi. Perché quando menti ad un altro lo sai. Quando menti a te stesso, finisci velocemente per credere alla tua stessa bugia. Sì, in fondo sono giusto. Certo, sono un “povero peccatore” come tutti. Ma in fondo vado bene così. E non è proprio questo “vado bene così” l’essenza di ogni farisaismo? Nell’attimo stesso in cui diciamo questo a noi stessi, il nostro cuore ha già cominciato a pietrificarsi. Possiamo fare tanti bei gesti, tante opere esteriori, ma in realtà ci muoviamo solo per “giustificarci”, per dimostrarci giusti agli occhi di noi stessi, degli altri e persino di Dio. Diventiamo così, secondo l’impareggiabile immagine di Gesù, sepolcri imbiancati. L’esterno è quello di una bella casa, fremente di vita. Ma dentro l’anima è ferma, chiusa ermeticamente in sé stessa, come morta.
Ora, in tutto ciò è cruciale non lasciarsi sfuggire un importante paradosso. L’appena descritta tendenza a “mentire a sé stessi”, non è sbagliata soltanto perché immorale. Ma anche e mi verrebbe da dire ancor di più perché ci impedisce di sentire il bisogno di Cristo, della Sua grazia, con quella sete ardente che invece ci invade quando guardiamo con sincerità in faccia la bruttezza di un peccato o di una passione cattiva e ne proviamo ribrezzo. Vediamo dunque quanto sciocchi siamo: diciamo di voler ardere per Cristo, di voler sentirci “assetati” di Lui, ma poi ci rifiutiamo di imboccare la strada più breve per giungere alla meta cui diciamo di tendere. Certo, la sete di Cristo non è soltanto bisogno di liberazione dal male. E tuttavia è anche, e in buona misura, questo.
È qui istruttiva l’esegesi agostiniana del famoso incipit di un altro salmo, il 42:
Come la cerva anela ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela a te, o Dio.
L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente:
quando verrò e vedrò il volto di Dio?
Sant’Agostino racconta nel suo commento a questo salmo di una antica credenza secondo cui la ragione per cui i cervi del deserto corrono così forte verso i corsi d’acqua quando hanno bisogno di bere, è il fatto che essi sarebbero soliti uccidere a morsi i serpenti velenosi che infestano le brulle lande in cui vivono [2]. Orbene, essendo il serpente nella bibbia il simbolo del peccato, Agostino vuol vedere qui un simbolo del mistero della vita spirituale: la sete di Dio cresce tanto più, quanto più l’anima “uccide” i serpenti velenosi che strisciano in lei. La domanda cui Agostino non risponde chiaramente è duplice: primo, perché nel mordere i serpenti la sete del cervo si fa più ardente? Secondo, che vuol dire per l’anima, fuor di metafora, addentare “i serpenti” cioè vizi e peccati?
La risposta alla prima domanda è facile: nel mordere la testa del serpente, evidentemente il cervo non può evitare che qualche goccia di veleno gli schizzi in bocca. Di qui la sete bruciante.
Quanto alla seconda domanda, risponderei così: addentare i serpenti significa chiamare le nostre colpe e cattive passioni per nome, “mettercele in bocca” appunto. Non appena lo facciamo, non possiamo che sentire l’amaro del veleno riempirci la bocca, ciò che spiega l’intensificazione della sete: Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come assenzio (l’amaro per eccellenza) e veleno” (Lam 3, 19).
Comprendiamo dunque il paradosso: di fatto, più noi siamo netti nel giudicare il male che vediamo in noi, più la nostra sete di Cristo, dell’acqua del suo Spirito si farà intensa. Viceversa, la nostra preghiera facilmente si “spegne”, diviene priva di fuoco, quando smettiamo di gettare nella “fornace” del nostro cuore il “nero carbone” dei nostri peccati, vizi e meschinità, per usare un’altra splendida immagine che prendo questa volta dal film russo Ostrov [3].
Più noi siamo netti nel giudicare il male che vediamo in noi, più la nostra sete di Cristo, dell’acqua del suo Spirito si farà intensa.
Non è curioso? Il carbone di suo è nero che più nero non si può. Eppure, se gettato in una fornace, esso produce fuoco e così luce, splendore. Così è delle nostre miserie, dei nostri peccati. Proprio quando lasciamo che il loro nero ricordo riempia il nostro cuore immerso in preghiera, ci accorgiamo che la fiamma del desiderio, della sete di Dio anziché ridursi si ravviva, divampa. Mirabile alchimia! Poiché ciò che qui accade è che, mediante l’atto stesso di riconoscersi nera, l’anima si riveste di lucente ardore.
Tu vuoi la sincerità del cuore
Tutto questo ci aiuta a capire perché don Giussani diceva che la cosa più importante nella vita spirituale – anzi l’unica veramente decisiva – è che tutto venga giudicato [4]. Non sta a noi purificare il nostro cuore, liberarlo dal male. È lo Spirito che brucia, che purifica. A noi spetta venire alla luce (cfr. Gv 3,20-21; 1 Gv 1,7), esporci al fuoco.
Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinnanzi. / Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
Sempre – dice il salmista. Non suona un po’ eccessivo questo sempre? Perché affliggersi, quando sappiamo che la misericordia del Signore è infinita e che Gesù ha lavato sulla croce tutti i nostri peccati? Eppure queste sono le parole del salmista: il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Ci sono stati, soprattutto nell’Oriente Cristiano, grandi maestri spirituali che hanno fatto di questo “sempre” la spina dorsale di tutto il cammino di santità. Lo chiamavano pènthos perpetuo, cioè compunzione perpetua, memoria incessante del proprio essere peccatori. Senza dubbio si tratta di una sensibilità cristiana molto distante dalla nostra. E tuttavia sbaglieremmo di grosso se volessimo vedere in questa spiritualità nulla più che nevrotica scrupolosità. Il versetto seguente ci aiuta a capire il perché:
Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre.
La realtà del peccato non è riducibile alla somma delle singole trasgressioni, delle nostre singole mancanze. Il peccato, in senso biblico, è prima e più profondamente una malattia, una sorta di misteriosa “affinità” col male che si annida in profondità. Tanto in profondità che il salmista arriva a dire: Nella colpa sono stato generato. Il che significa: il peccato ce l’ho nel sangue, è intriso nel mio DNA. La tradizione cristiana chiama peccato originale o ereditario questo misterioso veleno che inquina il cuore di ogni figlio di Adamo.
Noi sappiamo che il battesimo ci libera da questo stato di schiavitù (cfr. Rm 6,6-7.11.14). Chi è in Cristo è una nuova creatura (cfr. 2Cor 5,17; Col 3,9-10). E tuttavia sappiamo anche che ciò non significa che le passioni dell’uomo vecchio (cfr. Ef 4,22-24) spariscano dal cuore come per magia. Al contrario, la vita cristiana è secondo san Paolo tutta un’epica lotta (cfr. Ef 6,10-20) ordinata a far sì che l’uomo interiore, il Cristo che già vive in me (cfr. Gal 2,20) sempre più trionfi su quanto in me ancora gli si oppone, liberandosi dell’uomo esteriore con le sue passioni (cfr. 2Cor 4,16).
Come questa lotta concretamente si svolge? È qui che il penthos, come lo chiamano i monaci greci, entra in gioco. Come abbiamo detto sopra, noi non abbiamo alcun potere di liberarci «dal giogo dal male» [5]. È il fuoco dello Spirito che ci purifica, tanto nella confessione quanto nella preghiera. E tuttavia la nostra libertà gioca un ruolo decisivo: tu puoi decidere se esporti o non esporti al Fuoco. Il che significa: tu puoi decidere se guardare o non guardare in faccia un certo peccato o una passione cattiva che si annida in te. Ecco perché secondo il salmista sembra non esserci virtù più decisiva nel cammino che porta alla liberazione dal male della sincerità:
Tu vuoi la sincerità del cuore e nell’intimo mi insegni la sapienza…
Più e prima che ogni altra cosa, la penitenza è soprattutto sincerità, riconoscimento sincero del male che porto addosso. Il digiuno è importante, le opere di carità sono importanti. E tuttavia, possono anche gonfiare. Possono diventare paradossale scudo alla vera conversione, forme di auto-giustificazione. Invece, uno spirito contrito tu o Dio non disprezzi. Si comprende così il penthos insaziabile che trasuda dalle pagine di un Simeone Nuovo Teologo [6] o di altri autori bizantini. Non si tratta di scrupolosità. Ma piuttosto della scoperta del paradossale potere della sincerità: senza far nulla, semplicemente spogliandoti davanti a Dio, tu permetti alla Luce-fiamma dello Spirito di invaderti e pian piano bruciare ciò che le si oppone.
Si obietterà: ma il Signore non conosce forse il mio cuore meglio di quanto lo conosca io stesso? Che bisogno ha della mia sincerità? Non ne ha bisogno per conoscerti. Ma ne ha bisogno per liberarti. Egli infatti rispetta fino a tal punto la tua libertà, che ha deciso di non investire col Suo sguardo di fuoco se non quel che di te gli metti davanti:
Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe (…)
non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito
Più e prima che ogni altra cosa, la penitenza è soprattutto sincerità, riconoscimento sincero del male che porto addosso.
Perché io possa gridare come mie queste parole, perché io possa sentirle mie per davvero, io devo innanzitutto essere nudo davanti a Lui. Devo essermi spogliato fino al punto da sentire vergogna per quel che vedo. Devo essermi scoperto (davanti a miei stessi occhi!) fino al punto che quando mi metto davanti a Cristo, come il pubblicano della parabola, non oso nemmeno alzare gli occhi verso di Lui (cfr. Lc 18,13) [7]. Come faccio a dire: Distogli lo sguardo dai miei peccati!, se non sono in effetti davanti allo sguardo di nessuno?
Qui sta tutta l’audacia, la grandezza nostra, in questo denudarci davanti a Lui, e insieme mendicare: Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe!
Dolore e gioia: i frutti del penthos
Il primo frutto della compunzione vissuta è ciò che gli Orientali sogliono chiamare dono delle lacrime [8[. La prima cosa che accade quando esponi il tuo cuore al fuoco, è infatti lo sciogliersi del ghiaccio di cui il peccato lo ha rivestito. Prima del dono della gioia, dell’esultanza della resurrezione, ci sono le lacrime della contrizione. Che cosa sono queste lacrime? Le lacrime sono l’effetto del disgelo interiore prodotto dal pentimento, cioè dal fuoco dell’amore che si riaccende in noi. Di qui il paradossale gusto dolce amaro di queste “sante lacrime”. Lacrime amare, perché intrise del dolore di non aver amato, di non saper amare. Dolore di aver ferito e continuamente ferire l’Amore. Lacrime dolci, perché questo stesso dolore, questo dolore di non amare, è paradossalmente il segno in noi dell’alba del vero amore:
Contro di Te, contro Te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto.
Nell’attimo stesso in cui ci viene fatto il dono di piangere non più perché abbiamo fallito, ma perché abbiamo tradito Te, o Cristo, “contro di te ho peccato!”, è come se d’improvviso le lacrime dell’amarezza si mutassero in acqua dolce, che disseta: passando per la valle del pianto tu la muti in una sorgente / e la pioggia l’ammanti di benedizione (Sal 84,7).
Veniamo così al secondo frutto della compunzione, che è la gioia, la letizia. Dal di dentro del dolore, sempre più si fa largo nel cuore una misteriosa gioia, segno interiore della resurrezione accordata:
Fammi sentire gioia e letizia
esulteranno le ossa che hai spezzato (…)
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo (…)
rendimi la gioia di essere salvato
sostieni in me un animo generoso.
Esulteranno le ossa che hai spezzato! Proprio quando trovi il coraggio e l’umiltà di lasciarti “spezzare le ossa” dal Cristo medico, ti è dato anche di sperimentare quella gioia, quell’esultanza che è come il sintomo del rinnovamento avvenuto.
Frutto della compunzione è la gioia, la letizia. Dal di dentro del dolore, sempre più si fa largo nel cuore una misteriosa gioia, segno interiore della resurrezione accordata.
La mia lingua esalterà la tua giustizia
Possiamo a questo punto passare al secondo pilastro della compunzione: la memoria della misericordia di Dio. Come abbiamo detto commentando i primi due versetti del salmo, perché il fuoco della compunzione arda in noi non basta il sincero riconoscimento del nostro male. Occorre al contempo mettere al centro del nostro sguardo interiore la misericordia del Signore, quella misericordia che per l’orante cristiano si rende visibile in un volto preciso: quello del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato sé stesso per me (cfr. Gal 2,20). È il volto di Cristo, ardente di amore onnipotente, che si deve disegnare davanti ai nostri occhi ogni volta che ci appelliamo, ripetendo le parole del salmo, alla misericordia e alla bontà del Signore:
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nella tua grande bontà cancella il mio peccato!
In realtà, Dio ha già risposto una volta per tutte al grido del salmista. Sulla croce Gesù ha sorbito l’amaro veleno di tutto il peccato del mondo e lo ha consumato nel fuoco divorante della sua santissima sete. E così è divenuto fonte inesauribile di redenzione per tutti coloro che credono in Lui. Dal suo costato aperto sulla croce (cfr. Gv 19,29-34) fluisce copiosa un’acqua capace di dare sollievo alla sete d’ogni anima-cervo che la beva con fede, come mostra in modo splendido il mosaico absidale di San Clemente.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Cosa significa liberami dal sangue? Quale sangue? Davide non solo era andato da Betsabea. Aveva anche subdolamente creato le condizioni perché il marito di lei Uria venisse ucciso. Qualcosa di analogo non accade forse anche a noi? Forse non abbiamo alzato mai il coltello su nessuno. E tuttavia anche noi siamo sporchi del sangue dei nostri fratelli – anche noi per soddisfare i nostri “desideri”, per ottenere ciò che vogliamo, calpestiamo continuamente i nostri fratelli, spesso senza nemmeno accorgercene. E così ci imbrattiamo di “sangue”. Il sangue è perciò il simbolo della misteriosa macchia che il peccato lascia nel peccatore. Essendo Dio giusto, Egli non può permettere che il male che facciamo non abbia conseguenze. Il peccato macchia. Ma Dio ci libera, ci ha donato una via per essere davvero liberati dal sangue: La mia lingua esalterà la tua giustizia.
Il peccato macchia. Ma Dio ci libera, ci ha donato una via per essere davvero liberati dal sangue: La mia lingua esalterà la tua giustizia.
Quale giustizia? Quella della croce: Dio ci libera dal sangue col sangue di suo Figlio, pagando lui stesso il prezzo del riscatto. Questa è la giustizia di Dio! Questa inondazione di misericordia che avviene nell’ora in cui il Signore innalzato sulla croce fa sprizzare fuori dal suo corpo squarciato tutto il suo sangue: Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio (2Cor 5,21).
Egli scende, si umilia perché io sia innalzato. Egli soffre la sete (cfr. Gv 19,28) e ne muore, perché la mia sete di vita sia placata. È l’admirabile commercium, il meraviglioso scambio che i Padri della Chiesa hanno così instancabilmente celebrato. Perché? Perché essi sapevano che porre al centro del nostro sguardo questo amore discendente è nella vita spirituale forse ancor più importante della presa di coscienza del nostro bisogno, del nostro stato di miseria, di ascendere. Non basta il riconoscimento del mio bisogno, della mia sete, a farmi correre verso la Fonte. Ciò che mi dà piedi come di cervo (cfr. Ab 3,16; Sal 18,33) è il rinnovarsi e l’approfondirsi in me dello stupore di fronte a questo Dio che corre per primo verso di me, che si mostra per primo assetato di darmi da bere (cfr. Gv 4,7.10; 19,28), quasi fossi io a soddisfare il suo desiderio più ancora che il viceversa.
Tu fai scendere la neve come lana
Da ultimo, voglio concludere soffermandomi sull’immagine a me più cara di tutto il salmo: quella della neve.
lavami e sarò più bianco della neve [9].
Ci si potrebbe qui fermare all’associazione bianco-neve [10] e concludere che al salmista interessi soltanto questo. Ma è davvero tutto qui ciò che la neve ha da dirci rispetto al mistero della purezza che Dio dona all’uomo quando lo monda dal peccato?
Come insegna Efrem Siro, tra il libro della natura e il libro della Scrittura esiste un legame molto profondo, se è vero che Dio ha scritto entrambi per parlare all’uomo, attraverso simboli e prefigurazioni, delle profondità ineffabili del mistero di Cristo. Di più: si tratta di due parti di un’unica opera, che perciò si completano a vicenda e non si possono leggere che insieme. Ciò che nel nostro caso significa due cose: primo, che Dio nel fare la neve aveva già in mente il salmo 51. Aveva cioè già in mente tutto ciò che la neve sarebbe stata chiamata a significare, a simbolizzare nelle Scritture di Israele prima e nel mistero cristiano poi. Secondo (si tratta del rovescio della medaglia), che nel contemplare la realtà concreta della neve, nel meditarne le diverse caratteristiche, io posso essere aiutato a comprendere il mistero della purezza di cui Dio mi sta parlando attraverso le parole del salmo. Ragion per cui l’autore ispirato da Dio usa questa immagine e non un’altra.
Tra le svariate cose che si potrebbero dire della neve, due soprattutto mi paiono degne di nota. La neve non è solamente bianca e lucente (cfr. Lam 4,7, Mt 28,3). È anche fredda (cfr. Pr 25,13 [11]) e scende dal cielo (cfr. Is 55,10; Gb 37,6; Sir 43,13) [12]. È vero che il salmista non fa parola di questo. E tuttavia, è davvero un caso che la “creatura” più bianca che esista sulla terra abbia anche queste due caratteristiche? Che cos’è la purezza che la grazia di Cristo deposita in noi se non il raffreddarsi dei bollori irrazionali che ardono nel cuore dell’uomo vecchio? Le parole del Siracide acquistano così un senso nuovo. Lo stupore che il bambino prova al vedere la terra rivestirsi di candore al cadere della neve, non è in realtà che una prefigurazione di uno stupore ancora più grande: quello che prova l’uomo redento, nel sentire la neve invisibile della grazia posarsi sul suo cuore:
Fa scendere la neve come uccelli che si posano,
come cavallette che si posano è la sua discesa;
l’occhio ammira la bellezza del suo candore
e il cuore stupisce nel vederla fioccare.
(Sir 43, 17-18)
Osiamo ancora qualcosa in più. Mi ha sempre intrigato il fatto che l’immagine della neve la si ritrova nel salmo 147 – salmo che nelle lodi del venerdì si recita dopo il 51 evidentemente perché la Chiesa interpreta l’uno come la continuazione e, per così dire, la logica conclusione dell’altro. Il salmo 147 descrive infatti la Gerusalemme riedificata dall’azione redentiva del Signore [13]:
Glorifica il Signore, Gerusalemme, / loda il tuo Dio, Sion / Perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte, / in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli. / Egli ha messo pace nei tuoi confini / E ti sazia con fior di frumento (…) / Fa scendere la neve come lana / Come polvere sparge la brina
Neve come lana. Fa impressione notare come l’associazione tra neve e lana torni ricorra altre tre volte nella bibbia in libri cronologicamente distanti l’uno dall’altro (cfr. Is 1,18; Dn 7,9; Ap 1,14) [14]. Certo, si tratta con ogni probabilità di una associazione proverbiale, che si spiega facilmente alla luce della somiglianza nel colore e nell’aspetto tra le due realtà [15]. E tuttavia, la Scrittura, così come la creazione, è parola di Dio e Dio non parla a vanvera. Perché questa associazione insistente tra neve e lana?
Non posso dimenticare la forte impressione che mi fece a Mosca la prima grande nevicata, all’inizio di un inverno durante il quale ero missionario in Russia. Faceva freddo, ma al vedere le strade della città, fino a poche ore prima sporche e scure, rivestirsi di candore, il cuore si scaldava, si riempiva di un misterioso tepore. Spontaneamente mi vennero alla mente le parole del salmo 147. E mi sembrò di comprendere.
Ma certo! La neve non è solo bianca. È anche fredda. E la lana non è solo bianca. È anche calda. Misteriosa unità dei contrari! C’è nella creazione di Dio una creatura che pur essendo fredda ha il potere di scaldare: è la neve. Così essa è davvero il simbolo più perfetto della purezza di cui lo Spirito del Risorto ci riveste, quando si posa su di noi e ci copre col suo candido manto, dopo il dolore della contrizione. Da una parte sentiamo nel cuore come un misterioso “freddo”, sintomo del raffreddarsi in noi delle “bollenti” passioni dell’uomo vecchio. Nello stesso tempo, insieme a questo “gelo”, a questa morte, affiora nel cuore un nuovo calore, un tepore nuovo, prima sconosciuto: è il calore della carità, segno del vivificarsi dei desideri dell’Uomo Nuovo, che è nascosto in noi fin dal battesimo: ma mentre il nostro uomo esteriore si va disfacendo quello interiore si rinnova, ringiovanisce di giorno in giorno (cfr. 2Cor 4,16).
Egli fa scendere la neve come lana. Questo splendido versetto parla in realtà “in figura” di quell’esperienza anticipata della vita del Risorto che don Giussani chiama verginità e che della compunzione vissuta è il frutto più fulgido. Cos’è infatti l’amore verginale, se non “impossibile” unità di amore ardente e fredda purità? E che cos’è a sua volta questo freddo ardore, se non il manifestarsi degli effetti della nostra partecipazione al grande mistero della passione, morte e resurrezione del Signore? Niente meno di questo è infatti il cammino della penitenza.
Cos’è infatti l’amore verginale, se non “impossibile” unità di amore ardente e fredda purità?
Mi sia allora concesso di chiudere commentando l’ultimo passo della Bibbia in cui neve e lana sono associati: l’apparizione del Risorto all’apostolo Giovanni all’inizio dell’Apocalisse:
I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve. Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiolo (Ap 1,14-15)
Si potrebbe pensare che qui Giovanni stia semplicemente assimilando il Cristo al Vegliardo seduto in trono apparso a Daniele: La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana (Dn 7,9). In quanto Figlio eterno Gesù sarebbe anch’egli “vegliardo” non meno di Dio Padre. Ciò è a mio avviso solo in parte corretto. Proprio la somiglianza con la visione di Daniele permette infatti di cogliere quanto nella visione giovannea è nuovo e peculiare. Primo, qui l’aggettivazione non è più spartita tra veste e capelli. L’attenzione si concentra interamente sui capelli, cui viene attribuito candore di lana e neve [16]. Secondo, se nella visione danielica il candore dei capelli perfettamente si addice al vegliardo, lo stesso non si può dire nel caso del Cristo, il quale mai nel Nuovo Testamento se non qui presenta capelli candidi. Infine, è chiaro dal contesto che è l’incandescente luce che si sprigiona da tutto il corpo del Risorto a rendere i suoi capelli bianchi. Il candore “come di neve e lana” dei capelli del Signore non è dunque più qui simbolo di “eternità”. Esso è piuttosto il segno della purificazione-glorificazione che la carne del Signore ha subito nel passare attraverso il rovente crogiolo della passione (cfr. Ap 1,15b). Il nesso con quanto detto sopra a commento del salmo 147 viene così alla luce. I capelli incanutiti del Cristo sono il simbolo del calore freddo, “siderale” del corpo del Risorto. La resurrezione non è per Gesù ritorno alla vita precedente, in cui egli poteva patire fame, sete, dolore, tristezza ecc. Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui (Rm 6,9). La resurrezione implica per l’uomo Gesù l’accesso ad una nuova condizione, che presuppone l’abbandono irreversibile della precedente. In un certo senso, la dura guerra con le forze infernali che egli ha combattuto sulla croce, lo ha davvero “incanutito”, reso “anziano”. Ma questa “anzianità” non indica perdita di forza e giovinezza. Piuttosto, un po’ come per il Gandalf di Tolkien, essa è simbolo dello status di “Bianco” che egli si è guadagnato mediante il dolore: un status che porta con sé “gelo” non meno che “calore”, perfetto distacco e invulnerabilità alle passioni del corpo, non meno che potere di soccorrere, illuminare, scaldare ogni uomo, mediante l’ardore che emana da quel Sole che il Suo corpo è divenuto.
NOTE AL TESTO
[1] Il termine Hesed è parola chiave della teologia dei salmi (127x): indica la fedeltà di Dio nell’amore. L’altro termine, rahamim, che letteralmente significa viscere (materne), esprime invece l’aspetto per così dire materno, incondizionato e pieno di compassione dell’amore di Dio. Vale la pena ricordare che entrambi i termini compaiono nella solenne teofania del Signore a Mosè narrata in Es 34,1 ss.: il Dio misericordioso e pietoso, ricco di grazia e fedeltà (cfr. Es 34,6-7)
[2] Cfr. sant’Agostino, Commento ai Salmi (Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori: Milano 1988), p. 89.
[3] Il riferimento è al film del regista russo Pavel Lunghin L’isola (Ostrov, 2006). Il protagonista è padre Anatolij, un santo monaco che passa il suo tempo portando con una carriola il carbone che serve ad alimentare il riscaldamento del monastero dal relitto di una barca alla caldaia del monastero stesso. L’umile mansione che Anatolij svolge con indefessa abnegazione, si rivela presto essere un simbolo. Il vero lavoro cui il santo starec si dedica è quello di affliggersi al ricordo di un grave peccato che egli ha commesso in gioventù (guarda caso quando serviva come soldato proprio sulla barca dove egli ogni giorno va a prendere il carbone). Egli scoprirà poco prima di morire che l’uomo di cui egli credeva di aver vigliaccamente causato la morte non è morto. Ma Dio ha permesso ed anzi voluto la “svista”, proprio per fare di Anatolij il santo penitente che senza neanche saperlo ripara con la sua compunzione per il peccato di tutto il suo popolo caduto nell’ateismo.
[4] Cfr. L. Giussani, Affezione e dimora, BUR, Milano 2001, 7.
[5] Liberati dal giogo del male, Inno di Quaresima delle Trappiste di Vitorchiano.
[6] Cfr. Simeone Nuovo Teologo, Le Catechesi, Città Nuova Editrice, Roma 1995.
[7] Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore! (Lc 18,7).
[8] Scrive, per esempio, Simeone Nuovo Teologo: «Mediante una ardentissima penitenza l’anima si purifica con abbondanti lacrime senza le quali non è mai possibile… innalzarla alle altezze della contemplazione». «La confessione assidua realizza la penitenza e la penitenza eccita le lacrime… e le lacrime purificano il cuore… cosicché l’anima giunge alla consolazione del divino Spirito».
[9] Non c’è qui purtroppo lo spazio per soffermarsi sull’altra splendida immagine del verso 9, quella dell’issopo: Purificami con issopo e sarò mondo. Basti rilevare che anche nel simbolo dell’issopo si nascondono significati profondi, che il dialogo con altri importanti passi dell’Antico Testamento (Esodo, Levitico, etc.) e soprattutto con il racconto giovanneo della morte del Signore (cfr. Gv 19:29) aiuterebbe a far emergere.
[10] L’associazione è comune nella Bibbia (cfr. Es 4,6; 12,10; 2Re 5,27; Dan 7,9; Mt 28,3; Ap 1,14). Il termine ebraico sheleg (neve) è presente venti volte nella Bibbia.
[11] Come fresco di neve al tempo della mietitura, è un messaggero verace per chi lo manda.
[12] Egli infatti dice alla neve: «Cadi sulla terra» / e alle piogge dirotte: «Siate violente».
[13] Cfr. Sal 147,12-20. Nella Bibbia attuale, il salmo 147 secundum Vulgatam costituisce la seconda sezione del salmo 147 (Inno all’Onnipotente).
[14] Il primo testo, Is 1,18, ricorda da vicino Sal 51,9: Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve, se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. Il secondo si trova nella grande visione del vegliardo e del figlio dell’uomo al capitolo 7 del libro di Daniele (Dn 7,9-14), dove del vegliardo (cioè l’Altissimo) ci vien detto che la sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana. L’ultimo testo, che chiaramente echeggia il precedente, è Ap 1,14 (vedi infra).
[15] Non a caso si parla tanto di fiocchi di neve quanto fiocchi di lana.
[16] Si noti la pleonastica reduplicazione dell’aggettivo bianco, che ha chiaramente scopo di intensificazione: καὶ αἱ τρίχες λευκαὶ ὡς ἔριον λευκόν.