Giampiero Caruso, in missione a Mosca, racconta alcune esperienze della pastorale nelle carceri.

Ho incominciato ad andare in carcere durante gli anni di missione a Novosibirsk. Oggi ringrazio Iddio per avermi plasmato facendomi entrare in punta di piedi, con timore e tremore, là dove il vero volto della persona è coperto da tanto male, dove l’uomo non è trattato per ciò che è ma per la somma dei suoi delitti: «Padre» mi dicevano le guardie, «è tutto tempo perso con questi, perché delinquenti sono e delinquenti resteranno». Andare dai carcerati mi ha rivelato ciò che è essenziale nella vita per guardare a noi stessi e a tutto con verità. Ho capito che siamo fatti per essere amati ed amare. Abbiamo bisogno di uno sguardo che ci valorizzi, di un abbraccio che ci accolga.

Nel 2007, in un penitenziario della regione di Novosibirsk, avevo incontrato Aleks, un ragazzo cattolico appena diciottenne, condannato a due anni e mezzo di reclusione per aver rubato delle bibite da un distributore. In carcere, Aleks era diventato amico di un altro recluso, Viktor, anche lui cattolico, che gli faceva un po’ da padre.

Da quando sono a Mosca, ogni domenica celebro la messa per la comunità italiana nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Alcuni mesi fa, sul sagrato, vedo due uomini che mi vengono incontro. Riconosco uno di loro, è Viktor. Guardo il suo compagno e vedo un volto d’uomo maturo, provato, uno sguardo malinconico. Infine lo riconosco, nonostante il cambiamento enorme avvenuto in questi sette anni: «Aleks, ma sei tu?». Risponde al mio stupore con un lungo abbraccio. Mi dice all’orecchio: «Padre, ho combinato tante sciocchezze ma non ho mai dimenticato quello che mi ha detto quando ero in carcere». Non ricordavo le parole che gli avevo rivolto sette anni prima. Quando incontro qualcuno che soffre, desidero soprattutto che possa sperimentare che Dio è padre misericordioso. La presenza di Aleks mi ha ricordato che la Chiesa è il luogo dell’abbraccio di Cristo. Lo confesso, vedo lacrime nei suoi occhi: è drammatico vedere un uomo piangere per il male commesso. Però è un pianto amaro e dolce ad un tempo, colmo di gratitudine. Perché il pianto non viene dal peccato ma dall’esperienza di essere amati e perdonati. Aleks ha conosciuto in Cristo un Dio che perdona, per questo è tornato.

Da tre anni visito regolarmente il carcere che si trova nella repubblica Mordova. La sera prendo un treno che da Mosca arriva alla stazione di Pot’ma alle 4 del giorno dopo e aspetto fino alle 9 che un poliziotto mi accompagni in carcere. Nell’attesa, ho il tempo per riposare e pregare in una delle camere della stazione. Durante uno dei primi viaggi, Elena Ivanovna, l’impiegata che si occupa dell’ospitalità, mi aveva chiesto: «Perché lo fa? È pagato, vero?». Quando le risposi che lo facevo gratuitamente, per sostenere la fede e la speranza delle persone che incontravo, Elena mi raccontò la sua vita: il marito alcolizzato, i figli ormai grandi. «Che senso ha tutto quello che ho fatto se ora resto sola?» mi chiese. Da quel giorno, questa donna sconosciuta non è più un’estranea per me: ci unisce lo stesso desiderio che la vita abbia un senso. Non comprende – lei che non riesce nemmeno più a guardare in faccia il padre dei suoi figli – come sia possibile avere tanta attenzione per gente che ha commesso gravi delitti. È vero, le rispondo: è impossibile all’uomo ma non a Dio. È possibile se sai di essere stato amato senza averlo meritato. È la vocazione, la scoperta che all’origine della propria vita c’è un atto d’amore assolutamente gratuito che è misericordia. Quando accade, non puoi non desiderare che tutti ne facciano esperienza.

 

Nella foto, tramonto in una via di Mosca.

 
giampiero caruso

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