Sono passati pochi giorni dagli attentati di Parigi. Le immagini si susseguono ancora nella nostra mente e sembrano non volersene andare. I nostri dialoghi con le persone, gli amici di sempre, si riempiono di valutazioni, considerazioni, domande e arrivano sempre allo stesso punto: che fare? In tante occasioni, torna l’argomento portando con sé una strana impazienza, la sensazione di non poter andare avanti così, di dover fare qualcosa, che occorra fare qualcosa.
Mi continuano a tornare alla mente due volti, quelli di Latifa e Kamal. Lei è una ragazza di trent’anni, marocchina, musulmana. Non parla quasi per niente lo spagnolo, forse perché è arrivata da poco tempo qui a Fuenlabrada. È una delle tante donne musulmane che assistiamo quando, ogni sabato, al Reparto degli alimenti distribuiamo viveri a trentacinque famiglie della zona. Latifa ha tre figli, è una bella donna, il velo ne evidenzia i lineamenti. Ma non l’ho mai vista sorridere. Anche quando ci ringrazia, lo fa come assolvendo di malavoglia a un compito, con lo sguardo severo, espressione di un volto indurito dalla vita. Sin dall’inizio, a captare la mia attenzione è stata proprio questa sua durezza e chiusura, come di chi porta con sé un bagaglio pesante che non può o non vuole condividere. Sabato scorso, dopo aver ricevuto la sua borsa con gli alimenti, fa per andarsene in silenzio. La saluto, «Adios!», niente. Provo un’altra volta mentre sistema le sue cose, «Adios, Latifa!». Niente. Non mi arrendo. Quando ormai sta sulla porta, faccio l’ultimo tentativo: «Latifa, adios!». Questa volta si gira, sorride e mi saluta: «Adios!». Penso che Dio, in fondo, non agisce in modo molto differente con me. È lì tutti i giorni, aspettando che io mi accorga che mi sta chiamando. Combatte pazientemente, anche contro di me, per fare emergere ciò che di buono da sempre ha creato in me.
Kamal è un uomo alto e robusto, sulla quarantina, algerino. Anche lui è musulmano. Conosce la realtà della parrocchia da un tempo relativamente breve, due anni. Ha passato alcuni mesi nella nostra casa di accoglienza per gli uomini. Ora vive solo. Da qualche settimana ha iniziato a lavorare, seppure ancora sporadicamente. Sabato scorso arriva in ritardo alla “scuola di carità”, un momento di dialogo con tutti i volontari che lavorano nelle varie attività caritative della parrocchia. Kamal, come molti altri, da quando ci ha incontrato si è coinvolto con noi per aiutare chi è nella stessa sua situazione di bisogno. Arriva in ritardo e si siede in fondo. Quando sta per terminare l’incontro, chiede la parola e inizia a raccontare di sé. Sono ormai ventidue anni che è in Spagna: questo non è il suo paese, si sente uno straniero. Ma anche nel suo paese dove è tornato di recente, l’Algeria, ormai è uno straniero, è un emigrato anche per i suoi conterranei. Ci tiene a spiegare che non è una questione di religione, è e rimane musulmano. Però, incontrandoci, ha trovato una casa, la sua famiglia.
Sono tanti gli extracomunitari, specialmente musulmani, che orbitano nella nostra parrocchia a Fuenlabrada. Certe volte colpisce entrare nella parrocchia e vedere tante donne con il velo. Alcune collaborano stabilmente, altre vengono spinte da bisogni materiali, mentre con altre ancora, proprio a partire dalla necessità, è nata una relazione di amicizia. Nel dolore di fronte alla violenza, dall’odio che è evidente nelle immagini degli attentati, e ancor di più nelle reazioni che suscitano, quello che Dio fa qui è per me un segno di vera speranza. Un luogo dove ciascuno può trovare la sua casa, un luogo dove vive la carità, quella stessa carità di Cristo che è morto e risorto per me e per ciascuno di loro. È per una bellezza così che posso continuare a guardare i loro volti senza paura. Una bellezza per cui vale la pena spendere la vita.
Nella foto, una veduta di Madrid (Foto Norma Desmond1)