La testimonianza di un seminarista sulla caritativa con i piccoli malati del Bambin Gesù: quando stare di fronte alla sofferenza è fare memoria di Cristo.

“Buonasera, siamo i seminaristi della Fraternità san Carlo, veniamo qui ogni sabato. Disturbiamo se facciamo una visita?”. Con queste parole, ogni sabato pomeriggio entriamo nelle stanze dell’Ospedale Pediatrico del Bambin Gesù di Roma. È il secondo anno che faccio questa caritativa che è diventata per me uno dei momenti più attesi della settimana. La attendo perché è un luogo dove non si può barare. Sei messo di fronte alla verità.
Il nostro gesto è molto semplice: iniziamo recitando insieme l’Ora Media, poi entriamo in reparto e andiamo a giocare con i bambini. Segue l’attesissimo momento di canti, dove non manca mai Guendalina, la canzone che ferma tutto il reparto perché infermieri e dottori la cantano insieme a noi. Infine, leggiamo il vangelo della domenica e li salutiamo. Ogni volta, entrare in una stanza è difficile perché sai già che non puoi risolvere la situazione di chi è ricoverato, togliere ai bambini quel grande dolore.
Un fatto accaduto l’anno scorso mi ha cambiato molto. Con Filippo siamo entrati in una stanza dove c’era una giovane donna con in braccio una bambina piccolissima. Appena entrati, la bimba comincia a fissarci: è evidente che ha paura di trovarsi davanti dei nuovi dottori. Non ci stacca di dosso quei suoi occhi profondi, di un marrone intenso. Chiediamo come si chiamano e da dove vengono. Arrivano dal Sudan e sono musulmane. Passano i mesi, Filippo ed io ci affezioniamo alla piccola Ashia e alla sua mamma. Ogni sabato, la prima stanza che andiamo a visitare è la loro. Sempre più spesso, quando cantiamo in corridoio, la vediamo affacciarsi alla porta, curiosa di capire meglio chi siamo. Nasce un dialogo che aumenta la confidenza tra noi: “Perché venite qua?” ci chiede. “Per stare con voi. È un’esperienza che ci aiuta a capire chi siamo”. Avrà più o meno la nostra età, questa mamma: è incuriosita dal fatto che siamo seminaristi, che vogliamo diventare preti. È colpita dalla nostra fedeltà all’appuntamento del sabato. “Abbiamo le stesse domande che avete voi” rispondiamo. Non è la sola a chiedere ragione di quello che facciamo, che siamo. Una mamma ci dice: “Qua vengono tanti volontari, persone generose che danno il loro tempo. Però sorridono sempre. Voi siete diversi, non avete l’obbligo al sorriso. Se vi affidiamo un dolore, siete pronti a condividere con noi anche la tristezza”.
Dopo qualche mese, un sabato troviamo la stanza vuota: pensiamo subito che la bambina sia guarita e che siano tornate a casa. Giriamo per le stanze fino a che una mamma ci dice: “Avete saputo dei due bimbi che sono morti?”. Filippo ed io ci guardiamo. Nei nostri occhi c’è la stessa domanda: “Non sarà lei?”. Con il cuore stretto, chiedo spiegazioni alla signora, anche se in cuor mio conosco già la risposta. E lei dice di sì, la bimba sudanese non c’è più. “Perché, Signore?”. Nasce subito dentro di me la domanda che, penso, queste mura d’ospedale hanno sentito molte volte. Una domanda che è già preghiera di fronte ad un dolore che pare inspiegabile.
Come starci di fronte? Una risposta completa non ce l’ho: sicuramente quello che mi aiuta a stare davanti a questo evento incomprensibile è la compagnia dei miei fratelli. Solo con loro posso restare in quel reparto, senza scappare. Perché loro mi ricordano Chi ha già salvato, con la mia vita, anche la vita di tutti questi piccoli bambini malati. È per questo che torno qui, per ricordarlo ancora e ancora.

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