Aprirsi agli altri è la strada per scoprire la propria identità e la propria vocazione, ed è importante percorrerla con i giovani che ci sono affidati.

L’estate scorsa ho partecipato al primo campo estivo che i giovani austriaci dei Cavalieri di Malta hanno organizzato in Libano. Rispetto agli anni passati, quando il campo era dedicato ai giovani tedeschi, ho trovato un gruppo più piccolo e familiare, una cinquantina di persone in tutto. Con i volontari, ho fatto un percorso prendendo spunto dalla realtà del campo stesso, intitolato “Scuola di carità”, concentrandomi sul tema della vocazione: dalla domanda “Chi sono?” a questa: “Per chi vivo?”.
Mi ha colpito il fatto che per tanti questa è stata “la settimana della vita”. Il clima gioioso era palese: ma perché? Di solito viviamo una vita concentrata su noi stessi. Giriamo attorno a noi, ai nostri problemi, alle nostre preoccupazioni. Sempre più spesso, cerchiamo nei social media l’affetto necessario per vivere, il rimedio alla ferita della nostra solitudine. Invece, in quei giorni, la nostra attenzione era totalmente spostata su un altro. Quasi ogni volontario, infatti, aveva un ospite disabile di cui era responsabile e che doveva seguire per tutta la giornata. Erano lì, con una persona sconosciuta e disabile, che a volte non parlava la loro lingua e che comunque non avevano scelto loro. Ma che profondità di rapporto si è creata in quei giorni! Non c’era spazio per le maschere o per erigere muri dietro ai quali proteggersi! Si stava in modo immediato davanti alla persona, guardando al bisogno dell’altro.
È stato bello vedere come tra loro si comunicavano Cristo a vicenda. Gli ospiti sono spesso persone non volute, non guardate, ferite dalla vita. Trovarsi a fianco un giovane, che sta lì a loro disposizione, senza chiedere un tornaconto, che cerca di servirle nel modo migliore possibile, ha cambiato tanto. È sempre impressionante quando una persona riesce ad emergere dal suo guscio, mostrandoti un sorriso che parte dal cuore. E quanta felicità nei ragazzi! Non avevano Internet o altre comodità, avevano soltanto questa realtà davanti: ed erano felici! Questa esperienza indica la vera cura alla ferita della nostra solitudine. Come dice il Papa, siamo parte di “una storia d’amore” a cui siamo stati invitati in prima persona.

 

 

(Christoph Matyssek lavora nella Cappellania universitaria (KHG) a Vienna (Austria). Nella foto, una veduta della città – foto a.michelotti flickr.com .)

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