Cari amici,
sono passati solo tre mesi da quando, poco dopo l’ordinazione diaconale, mi sono trasferito a Mosca. Nel tempo trascorso qui finora non ho ancora cambiato molto della Russia, ma la Russia ha sicuramente cambiato me.
Spesso nel dibattito attuale si sente parlare di “società fluida”. Da questo punto di vista la Russia e i russi sono all’avanguardia. Ho sempre creduto che programmare la vita, nei limiti del possibile, fosse un valore, innanzitutto per non essere colti impreparati da ciò che accade. Da quando sono a Mosca ci ho rinunciato. Qui è troppo difficile programmare, tutto cospira a far abbandonare i propri piani sul futuro. Un giorno leggi che chiuderanno la fermata della metropolitana vicino casa per nove mesi. Un altro ti devi mettere in coda all’ufficio immigrazioni senza sapere quali documenti ci vogliono, che orari facciano e a chi chiedere queste informazioni. Ogni mattina, prima di uscire di casa, bisogna assolutamente guardare le previsioni meteo: darle per scontato perché vedi che c’è il sole, è una leggerezza che si paga. La sensazione che si percepisce parlando con la gente è che non si può essere più sicuri di nulla riguardo al domani. Oggi ci sono i soldi e si può andare in vacanza, ma domani potrebbe iniziare una guerra e potrebbero di nuovo chiudere le frontiere. Anche per questo i turisti russi sono così benvoluti in Europa: se domani puoi perdere tutto, che senso ha risparmiare?
La domanda che ho iniziato a pormi qualche settimana dopo essere arrivato è stata la stessa che si poneva Lenin: «Che fare?». Innanzitutto devo avere tanta pazienza per entrare in questa lingua così ostica: per preparare il Vangelo da leggere in Cattedrale devo infatti spenderci almeno tre quarti d’ora. Poi devo entrare nel modo diverso di lavorare che hanno le persone: ciò che in Italia riuscirei a fare in un giorno, qui devo accettare che lo farò in tre.
Non so se esista un’altra città al mondo dove ci sono troppi sacerdoti e allo stesso tempo essi manchino. Sono infatti troppi se si guarda alle strutture (ci sono solo tre chiese cattoliche in tutte la città) e pochissimi se si guarda alle milioni di persone che attendono Cristo.
Arrivato in missione, il vescovo Pezzi non mi ha dato un elenco di incarichi. L’unica priorità è stata quella di incontrare le persone una per una, magari anche a costo di lunghe ore di viaggio. Poi ripenso a cosa sia la nostra Fraternità in questo enorme paese e mi ripeto: «Che fare?». Ricordo le parole di una conversazione che ho avuto con don Emmanuele Silanos: con l’elezione di Pezzi a vescovo di Mosca Dio ci ha dato il segno che la Fraternità san Carlo e il movimento hanno un ruolo di responsabilità nei confronti della Chiesa in questo enorme Paese. Questa affermazione mi infonde coraggio e mi ha aiutato a trovare la risposta alla mia domanda: «Io qualcosa di importante l’ho già fatto». Vivo infatti insieme a don Paolo Paganini, don Giampiero Caruso e mons. Pezzi, con cui abbiamo riaperto la casa di Mosca. Il mio compito è vivere la vita della casa. Don Massimo Camisasca tempo fa, parlando della nascita dei monasteri in Europa dopo le persecuzioni, sottolineava che i monaci volevano semplicemente vivere un amore uguale a quello per cui Cristo ha vissuto ed è morto, per cui i martiri hanno offerto la loro vita.
Ho capito che per me vivere la carità fino alla fine coincide con una testimonianza quotidiana, umile e sicura. La radicalità non deve per forza destare meraviglia. Quando mi alzo la mattina per la preghiera comune con i fratelli o nelle serate a casa; quando ritaglio i volantini per la scuola di italiano cui stiamo dando l’avvio in collaborazione con la Biblioteca dello Spirito; o ancora quando scendo le enormi scale mobili su cui si muove il fiume di gente che attende Cristo. In tutte queste cose mi sento esattamente come quei monaci, che, vivendo umilmente e nell’anonimato, hanno gettato le fondamenta di una nuova civiltà.
Vi abbraccio,
Carlo
Mosca, 20 ottobre 2014