Non sembrano fuori posto, nella “Sala della marchesa”, Marina e Gabriella. Alla signora Giulia di Barolo sarebbero piaciute, con gli occhi grandi pieni di attesa. Arrivano insieme e si siedono vicine, ma non è questione di timidezza. Marina ha 35 anni, dieci più della sorella Gabriella. L’ha cresciuta come una madre nel campo rom dove ha passato l’adolescenza, con i genitori e otto tra fratelli e sorelle. Portano con orgoglio gli abiti dal colore acceso, ma la speranza con cui parlano di una vita “migliorata molto negli anni” non viene dall’etnìa. Ha origine altrove, in una catena di eventi che le ha travolte e indirizzate su una strada che arriva lontano. La prossima tappa sarà la notte di Pasqua del 2018, quando riceveranno il battesimo.
“Veniamo dalla Serbia” racconta Marina, “prima ancora dall’India, dove ha origine l’etnìa rom”. I genitori arrivano in Italia negli anni ’80: Napoli, poi Torino. Il padre è un artigiano del rame, “un artista, produceva utensili da cucina ma anche orecchini. In poco tempo, costruiva baracche di legno che sembravano chalet”. I genitori sono ortodossi: “Quando sono nata io, mio padre lavorava fuori e mia madre stava con noi bambini. Parlavano spesso del nostro battesimo, ma non hanno mai trovato il tempo per organizzarlo. Però ci hanno insegnato a credere in Dio, anche se era una fede che non incideva sulla vita”.
Oggi, Marina e Gabriella vivono in una casa vera, lavorano. Lo rivendicano con l’orgoglio di chi ha scelto una strada che alla famiglia ha procurato tanti guai. Una vita difficile. Ci vorrebbe un romanzo per raccontare il risentimento dei parenti davanti al padre che lavorava e non voleva che i figli andassero a rubare, l’invidia, il rancore, la violenza dei vicini nel campo. E quell’agguato ai fratelli, la baracca incendiata, il processo: sono tanti episodi che Marina racconta ancora con la paura nella voce. Era il 1998, sono passati 20 anni e tutto è ancora vivo nella memoria. Ma il punto cruciale della vita ora è un altro. Da anni la parrocchia è un luogo familiare, grazie alla cordialità di don Berna e don Primo. Poi scatta qualcosa. Don Attanasio prende sul serio il desiderio di Marina di appartenere a un’altra storia, di ricominciare, e anche quello della sorella; affida entrambe a una signora della parrocchia, Maria; apre una strada. “Lo scorso anno gli ho raccontato quello che da tempo desideravo per la mia vita. Don Attanasio mi ha chiesto perché volevo battezzarmi e io gli ho risposto che consideravo il battesimo una cosa importante per essere più vicina a Dio”. Lui ha detto: “Va bene, cominciamo”.
Maria è una signora elegante, dallo sguardo profondo: “Mi sentivo inadeguata al compito” racconta “ma capivo che la cosa importante era comunicare loro un’esperienza, ciò che mi fa vivere, che mi rende felice. Racconto loro l’amicizia con Gesù, il fatto che la vita, nonostante le fatiche e i dolori, può essere trasfigurata. Tutto diventa un’occasione per stare più vicino a Lui. Con Marina e Gabriella, desidero un’amicizia a quattro: noi tre, più Cristo”. Il battesimo – dice Maria – non è una fine, ma un inizio, una porta che si apre verso una vita sempre più intensa, perché la crescita nella fede è sempre anche crescita umana. Delle due donne, così lontane da lei, oggi così vicine, ha scoperto la ricchezza, la gioia, il desiderio di cambiare. “Una grande generosità, un altruismo che sicuramente è stato loro donato da Dio e che sta fruttificando. E poi, si vogliono molto bene, l’amore tra loro ispira tenerezza”. Le due sorelle traducono il dono di questa amicizia in poche parole: “Sorride molto e ti perdona sempre, subito. È paziente”.
C’è ancora qualcosa da ricordare, per verificare se anche il passato più doloroso può essere pacificato alla luce di una nuova speranza. Marina riassume in fretta quell’inverno terribile dopo la fuga dal campo, la casa costruita con il cartone sotto i piloni di un viadotto, la stufa a legna per tenere a bada il freddo nel precario rifugio che le mani sapienti del padre hanno allestito per la famiglia di 12 persone. Gabriella chiede la parola. Ricorda poco di quegli anni ma ha qualcosa da dire: il dolore che può lasciarsi alle spalle, adesso che è protetta dall’abbraccio di tanti, appartiene all’esperienza di chi non si sente accolto. “La prima volta che entrai in questa chiesa ero piccola, avevo 10 anni. Chiedevo l’elemosina con la mamma. Non conoscevo le preghiere, non sapevo fare il segno della croce. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Mi annoiavo, ero proprio zero”. Gabriella odia vivere nel campo e a scuola si sente messa da parte: “I bambini mi trattavano male. C’era un’insegnante che mi faceva soffrire con atteggiamenti aggressivi. Non aveva fiducia in me. Ogni mattina era una guerra con mio padre perché non volevo entrare in classe”. Sogna di fare il medico ma poi la mamma si ammala e lei lascia. La sconfitta le brucia ancora. “Mi sono avvicinata alla chiesa perché mi mancava qualcosa. Pregavo per capire. E invidiavo quelli che facevano la comunione. A don Attanasio ho detto che non mi sentivo completa. Ed eccoci qua”. L’ultima battuta è per questa casa, per i preti che hanno aperto la porta: “Hanno davvero qualcosa di speciale” dicono insieme, rubandosi le parole. “Una pace, una serenità, anche un’allegria di uomini realizzati. Ma al battesimo ci vieni, il prossimo anno? Guarda che ti aspettiamo!”.
(nell’immagine, P. Picasso, «Gitana delante de La Musciera», 1900)