In carcere per continuare il proprio cammino di conversione: questa è l’esperienza di Pietro Paiusco, al quarto anno di seminario.

Il nostro viaggio del venerdì verso il carcere minorile di Casal del Marmo a Roma comincia con il rosario che recitiamo insieme in macchina: siamo tre seminaristi con don Nicolò. È il momento in cui più acutamente sperimento la mia inadeguatezza, quando chiedo al Signore: «Rendimi di Te trasparente».
Appena arriviamo, le guardie della portineria ci salutano e ci accolgono con calore, ed eccoci dentro le alte mura. Dopo una breve preghiera nella cappella del carcere, andiamo dai ragazzi che si stanno svegliando dalla pennichella del primo pomeriggio. «Nikkolòòò!» chiamano dalle finestre delle palazzine dove sono rinchiusi. Oppure «Preti!». A volte, i nuovi chiamano tutti noi “Nikkolò”: mi viene da sorridere perché intuisco che, a modo loro, ci percepiscono come una cosa sola. «Dove sei stato domenica? Dov’è David?». Ci aspettano, e se qualcuno di noi non c’è se ne accorgono. Proponiamo a chi vuole un breve incontro su temi che scegliamo di volta in volta. Quello che vorrei per loro è quell’amore a se stessi che permette di riprendere in mano, da subito, la propria vita. A uno degli incontri, dedicato ai fatti di Charlie Hebdo, c’erano un ragazzone della Magliana, un altro italiano, poi un simpatico zingaro e infine “Lampadina”, un rom piccoletto che si è affezionato a noi giocando a calcio balilla. Quando viene agli incontri, non dice niente perché è molto timido. Lo abbiamo visto crescere in carcere, ha dovuto guadagnarsi il rispetto dei suoi compagni a suon di rispostacce e musi duri. Viene sempre anche a messa. Quando a Natale abbiamo appeso insieme i volantoni con la Sacra Famiglia, ci siamo resi conto che lui non conosceva nessuna delle figure. Abbiamo iniziato a spiegargli: «Questo è Gesù, il nostro Signore, si è fatto uomo per noi, è il nostro Creatore! Questa è Maria, sua madre e madre nostra. Questo è san Giuseppe, il suo padre putativo…». Su “putativo” si è perso, ci ha detto invece che voleva pregare Dio ma non sapeva come fare perché nessuno glielo aveva insegnato. La volta successiva, gli abbiamo consegnato un foglietto con l’Ave Maria e il Padre nostro e abbiamo visto i suoi occhi illuminarsi di gratitudine.
Nella seconda parte del pomeriggio passiamo al campo da calcio per scambiare due chiacchiere con gli altri. Poche idee ma chiare: le ragazze, i vestiti, i soldi e l’onore. A volte, soprattutto all’inizio, si vantano delle loro imprese criminose. Ma quando poi salta fuori che hanno una mamma in pensiero che li aspetta, i loro volti si fanno seri e addolorati. Un giorno “R1”, che è in carcere perché ha preso “in prestito” una motocicletta senza chiederla, mi chiama per farmi una domanda. Mi aspetto la solita richiesta, bagnoschiuma o rosario, gettonatissimi. Invece lui mi chiede di pregare perché di lì a poco ci sarà il suo processo. Sono stupito e contento di questa richiesta, gli dico che pregherò volentieri. Ma se il processo va bene – aggiungo – devi accendere un cero alla Madonna. «E chi è?». «Tu entra in una chiesa; lei è la Signora vestita di bianco». Più tardi, andiamo a salutare i “grandi” nell’altra palazzina. Non è un momento facile per me perché alcuni di loro mi hanno preso di mira: hanno una innata propensione nel percepire la consistenza di ogni persona. Se avvertono una fragilità, si infilano senza pietà in quello spiraglio. È un fatto, questo, che mi richiede una grande conversione. Senza saperlo, loro in realtà cercano in noi uno sguardo paterno. E lentamente, nella fedeltà a questi momenti veri e difficili, mi sono sorpreso a guardarli con tenerezza. Avevo negli occhi il bene a cui le vite di questi ragazzi sono chiamati, insieme allo struggimento per il fatto che non ne comprendono la bellezza e la grandezza. Alla fine del pomeriggio, noi quattro andiamo nella cappella del carcere per la messa. Ringraziamo di quanto è accaduto e preghiamo per i ragazzi. Io chiedo a Cristo la grazia di convertire il mio sguardo su di loro e sui miei fratelli, perché possa assomigliare sempre.

 

Nella foto, don David Crespo durante una visita ai giovani detenuti del penitenziario minorile di Roma.

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