Nata a Mosca da famiglia ebraica, Evgenija Ginzburg (1904-1977) comincia giovanissima a occuparsi di politica. Nel 1937, pur essendo assolutamente innocente, viene processata per attività anti-rivoluzionaria e condannata a morte. La pena viene poi commutata in una lunga detenzione. Evgenija viene privata di tutto: marito, figli, lavoro, parenti e amici. Passa da un carcere all’altro, fino a giungere nelle terre più desolate della Siberia, dove passerà la maggior parte dei suoi dieci anni di prigionia. Nel 1947 è una delle poche persone a cui è concessa la libertà; per essere riabilitata, tuttavia, dovrà attendere la morte di Stalin e il disgelo.
Il libro è una testimonianza incredibile dell’odissea di una donna che, mentre le cadono lentamente dagli occhi le scaglie dell’ideologia comunista, diventa capace di trarre insegnamento da ogni esperienza che attraversa, per quanto dolorosa e terribile possa essere.
Questo libro mi ha insegnato a vedere che tantissime cose, che siamo soliti dare per scontate, sono in realtà doni preziosissimi. Indimenticabili sono le pagine in cui la protagonista descrive l’estasi che prova quando torna a rivedere il cielo, dopo mesi di cella sotterranea; o la gioia che la prende quando legge per ventitré ore di seguito nella semioscurità, dopo un lunghissimo tempo in un cui non poteva avere accesso a nulla di scritto; o quando inaspettatamente entra nella sua cella di isolamento una compagna con cui non riesce più a smettere di parlare, tanto è grata di avere qualcuno con cui condividere quello che sta vivendo. Quando si arriva a pagina 600, si è ancora col fiato sospeso per il desiderio di sapere come andrà a finire.
Nelle pagine della Ginzburg ritroviamo Dostoevskij, Puskin, Dumas e Hugo. C’è solo una piccola, sottile differenza: in ciò che è raccontato in questo libro non c’è una sola riga romanzata. È tutto vero, dall’inizio alla fine!
Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, Baldini&Castoldi, € 19,90
(nella foto, il lago Baykal, Russia – foto William Veerbeek)