Il 24 agosto don Paolo Bargigia è tornato alla casa del Padre. Proponiamo la testimonianza di un seminarista che lo ha incontrato all’inizio dell’estate.

“Di qua, da questa parte…”. Alla porta c’è don Giovanni che ci aspetta, alto, robusto, con il tipico accento toscano. Ci presentiamo ed entriamo nel soggiorno della piccola casa parrocchiale. Don Paolo Bargigia è lì, immobile nella carrozzina ci sorride. “Benvenuti!”, esclama attraverso il microfono. “Vi aspettavo”. La malattia di cui soffre, la SLA, Sclerosi laterale amiotrofica, gli ha tolto molte cose, ma ha lasciato intatta la cordialità dello sguardo, la capacità di stupirsi. Ci sistemiamo, chi sul divano, chi su una sedia, chi per terra, per stare più vicino a lui. Gli raccontiamo del ritiro che noi seminaristi del primo e del secondo anno abbiamo fatto in questi giorni, con don Francesco e don Nicolò, sulla preghiera e sulla povertà. Poi incominciamo con le domande: “Come vivi la missione oggi?”. “Come è possibile essere felici anche nella malattia?”. Ci risponde con una espressione raggiante: “Vedo questa malattia come una vocazione dentro la mia vocazione, un modo preferenziale con cui Dio mi chiama oggi”. Nella stanza è sceso un grande silenzio. “Il Signore rende la mia malattia una testimonianza, anche se io non posso muovermi. Non ho dovuto fare niente, mi sono solo ammalato. La missione è sempre l’opera di un Altro e io sono in pace”. E questo, aggiunge sereno, è ciò che calamita la gente a casa sua, i volontari, gli amici, i parrocchiani: vedere uno che vive per un Altro. È ciò che don Nicolò ci aveva detto durante il ritiro: «Ogni nostra azione deve tendere ad un Altro, per essere costruzione dell’opera di un Altro. Viviamo per questo. Solo così si vince la paura di vivere, perché tutto quello che facciamo è offerto».
Commossi, vediamo quelle parole farsi carne in don Paolo: “Sento forte il desiderio di fare la Sua volontà. Lo chiedo ogni giorno, con implorazioni brevi perché mi manca il respiro: «Veni Sancte Spiritus…, veni per Mariam»”. Poco prima di salutarci, con alcuni canti che lo rallegrano, aggiunge un’ultima cosa. Ci guarda negli occhi, la voce è ferma: “Io sono un sacerdote, un sacerdote attivo. Ho questa grazia: offrire ogni istante, offrire l’istante che mi è dato. Per questo sono un sacerdote e ne sono grato. Forza, ragazzi, continuate su questa strada!”.
Tornando a casa, ci rendiamo conto che spesso abbiamo pensato che in una malattia, o più semplicemente in un progetto andato male, la felicità sia in qualche modo preclusa. Sono i momenti in cui sorge la domanda se sia possibile essere veramente felici, anche in una situazione drammatica. Emerge il nostro dubbio, quello che avevano anche i discepoli: «Non credo finché non vedo i segni della croce…». Abbiamo sempre bisogno che qualcosa accada di fronte ai nostri occhi per poter dire: «Eccoti!». Anche questa volta è stato così. Il dubbio si è sgretolato di fronte a quella faccia, a quel sorriso. È possibile anche nella malattia essere felici, cioè realizzati? Sì, è possibile, io l’ho visto.

 

(Nell’immagine, il seminarista Giorgio Ghigo in visita alla Basilica di san Pietro con un gruppo di amici della Cooperativa Nazareno di Carpi)

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