Voi siete di Cristo

Quaderno 20 – La verginità, l’unità e la gioia sono i segni che Cristo ha posto nel mondo per chiamarci a sé: una meditazione di don Paolo Sottopietra.

M. Chagall, La Pace (part.), Organizzazione delle Nazioni Unite, New York, 1963-1964

Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (1Cor 3, 22-23).
Tutto è nostro o, come scrive don Giussani, «tutto è pronto per essere assunto nell’ambito della Chiesa»[1]. «[…] il richiamo cristiano è prima di tutto la conquista del mondo nel senso evangelico: il regno di Dio. Avere il senso del regno significa avere il senso missionario»[2].
Cristo è «il missionario del Padre»[3], ci ha ricordato don Massimo, citando don Giussani che scrive: «Ho sempre pensato: se uno avesse domandato personalmente a Cristo “Qual è il pensiero dominante su te stesso? Che cosa sei ai tuoi occhi?”, m’immagino che Egli avrebbe risposto: “Io sono il Mandato dal Padre”. Il suo proprio esistere come missione»[4]. Ma Cristo continua a inviare a sua volta degli uomini, prolungando in essi, in noi!, la sua missione. È lui che fa di noi dei missionari, dei mandati. Questo nesso, che appare così vertiginoso, è reso esplicito nel vangelo di san Giovanni: […] chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato (Gv 13, 20). Ogni missione, dunque, risale fino al primo atto di invio, fino al Padre che manda il Figlio. E, reciprocamente, «attraverso di noi, è lui [Cristo] che deve regnare»[5]. Noi, proprio in quanto missionari, cioè inviati da Cristo, siamo chiamati a essere strumenti della basileía di Cristo, del suo regnare sul mondo e sui cuori degli uomini, su tutta la realtà.

Che cosa vuol dire che Cristo regna attraverso di noi? Jean Daniélou, meditando sullo scopo missionario della Chiesa, ha scritto: «[…] noi possiamo aiutare l’opera del Verbo facendo di noi quei segni veramente trasparenti, quei segni intelligibili, per mezzo dei quali Egli potrà manifestarsi al mondo»[6]. Ecco il punto che desidero sottolineare: siamo chiamati a diventare «segni veramente trasparenti». Siamo già segno, siamo già stati costituiti tramite della sua manifestazione e per questo siamo stati mandati; ma è altrettanto vero che dobbiamo diventare ciò che ancora siamo solo imperfettamente. Possiamo cioè crescere in quella trasparenza del significato che rende il segno veramente tale, efficace. Più esplicito ancora è don Giussani: «La missione è l’altro versante della parola conversione. Conversione e missione è la stessa cosa: cercare di portare il mistero di Cristo, della Chiesa, nella nostra situazione; conversione è identificare il nostro vivere con la missione di Cristo»[7]. In un altro testo, ribadisce: «“Missione – ha scritto Giovanni Paolo II nel suo messaggio al terzo colloquio dei movimenti di Bratislava – significa soprattutto comunicare all’altro le ragioni dell’esperienza stessa della propria conversione [del proprio amore a Cristo]”»[8].

Possiamo essere concretamente segno della sua presenza, in modo tale che altri possano vedere in noi Colui che ci ha mandato, se siamo trasparenti di lui. Siamo strumenti del suo regnare, se egli regna in noi. È questa la tensione drammatica in cui siamo collocati tutti i giorni, perché esistenzialmente non siamo ancora diventati del tutto ciò che ontologicamente già siamo. Cristo regna attraverso di noi, perché noi siamo suoi. Il mondo è ricondotto a Dio, al Padre, anzitutto in noi, perché noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio. Insomma, se e nella misura in cui si avvera in noi la frase di Paolo, […] voi siete di Cristo (1Cor 3, 23), siamo segni, diventiamo strumenti del suo regnare. La bellezza della nostra vita, la verità che traspare dai nostri rapporti e attira chi ci incontra, la carità di cui diventiamo capaci gli uni verso gli altri, tutto questo poggia sul nostro movimento di conversione personale e comunitario. Volgendo noi stessi a Cristo, noi volgiamo il mondo a lui. Il sacrificio della conversione rende perciò la nostra vita un segno per il mondo. Tutto è nostro, se noi siamo veramente di Dio, se la nostra vita veramente gli appartiene e aderisce a lui.
Se dunque convertirci significa diventare quello che siamo, dobbiamo guardare al valore ontologico dell’esperienza che ci è dato di vivere, guardando i segni che Cristo stesso ha posto nel mondo, attraverso gli uomini che sono suoi. Sono segni anticipatori della realtà definitiva, del regno di Dio compiuto, e sono dati a noi come doni ma anche come compiti che richiedono un cammino e un impegno da parte nostra.
Il primo di questi doni è la verginità; il secondo, l’unità; il terzo, la gioia.

Verginità

Dio ha chiamato degli uomini alla verginità, ha chiamato noi a vivere come lui. Chi può capire, capisca (Mt 19, 12), dice Gesù. Non viene dall’uomo questa chiamata, non risponde a categorie umane, ma è spiegabile solo – ci insegnava don Giussani negli incontri della verifica – come imitazione del modo in cui Cristo ha vissuto. La verginità «non può avere altra ragione che il fatto di Cristo così come si presenta, come si palesa alla coscienza, alla personalità: il motivo della verginità in senso stretto è l’imitazione di Cristo e basta! Letteralmente: è il fatto che Cristo è vissuto così[9].

Dio ha chiamato degli uomini alla verginità, ha chiamato noi a vivere come lui.


È necessario perciò che un uomo sia toccato dallo Spirito Santo per poter capire, per intendere e aderire a questa forma di vita.
A questo punto si presenta però alla nostra mente una constatazione drammatica: paradossalmente, la verginità brilla oggi con particolare evidenza nel suo valore di segno, di rimando a un altro mondo, soprattutto perché è screditata e osteggiata. Infatti nei mesi scorsi, riflettendo sulla radice delle campagne denigratorie rivolte ai sacerdoti, abbiamo compreso che la ragione ultima dell’odio consiste nel fatto che la verginità è in sé il segno di un oltre, di un impossibile che dimostra di essere reale. Se la verginità fosse menzogna, inganno di uomini che coprono sotto una nobile facciata la loro corruzione, allora tutto sarebbe corruzione. E se tutto fosse corruzione, io sarei giustificato nella mia corruzione, nessuno e niente più mi accuserebbe, nessuno più potrebbe pormi dei limiti. Ecco la radice e il fine dell’attacco: dimostrare che tutto è fango e buio, perché se ci fosse anche solo un punto di luce saremmo costretti a incamminarci verso di esso. Se la verginità è reale, al contrario, l’uomo non può più evitare di prendere posizione di fronte a Cristo (al vero contenuto dell’annuncio della Chiesa!), perché non può eludere l’appello che proviene da essa. Ma se la verginità è menzogna e finzione, se in realtà non esiste, siamo liberi di seguire noi stessi, il nostro istinto, le nostre passioni e la nostra volontà di dominio. Ecco come ragiona il mondo che ha rifiutato Cristo e continuamente lo rifiuta: È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita non è come quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade (Sap 2, 14-15). Chi vive la verginità è associato a questo destino di profezia e di martirio – e lo stesso accade, se pur in modo diverso, a chi vive il matrimonio come indissolubile nella fedeltà coniugale.

François Mauriac, nell’opuscolo intitolato Giovedì Santo, scriveva: «Può sembrare che i preti facciano difetto, ma in verità quale adorabile mistero che vi siano ancora dei preti! Non più umani privilegi: la castità, la solitudine, più spesso l’odio, lo scherno e, sopra tutto, l’indifferenza di una società che non sembra aver più posto per essi […]. Sommersi interamente in un’atmosfera pagana, la loro virtù susciterebbe il sorriso del mondo, se alla virtù il mondo ancora credesse. Sorvegliati e spiati, quelli che cadono sono denunciati da mille parti; quanto agli altri, che sono la stragrande maggioranza, nessuno si meraviglia di vederli faticare oscuramente senza una mercede che si rispetti, chinarsi sui corpi in agonia, infangarsi nei cortili degli oratori […]. Le parole di Cristo a loro riguardo sono una realtà di ogni giorno: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome”»[10]. Mauriac ha pubblicato il suo testo nel 1931, ma le sue parole sembrano scritte oggi per descrivere situazioni di cui anche noi facciamo esperienza diretta.
Gli fa eco Hans Urs von Balthasar, in un testo pubblicato nel 1974: «E se […] oggi siamo disattesi e disprezzati, […] occorre rimandare ancora una volta al fatto che verginità e croce, quindi ignominia, sono tra loro nel più stretto rapporto […]. E se persino i cristiani non vedono più il suo occulto valore, poiché corrono dietro a ideologie non cristiane, allora le persone vergini tornano a collocarsi nell’oscurità dell’apparente inutilità, che è un contrassegno fondamentale della croce di Cristo»[11]. Nel rifiuto del mondo, brilla dunque quel punto di luce che diventa scandalo: in quanto vergini, siamo nel mondo una voce che la mentalità dominante deve ridurre al silenzio, perché pretende di far risuonare il richiamo a una conversione che il mondo sente inaccettabile. È una voce che non si leva in contese, non grida, né si fa udire sulle piazze (cfr. Mt 12, 19), ma che in questa sua discrezione rimanda potentemente alla verità di un altro mondo ed esige dolcemente di cambiare questo nostro mondo: «[…] è un altro mondo che è presente e che dobbiamo, nella nostra povertà, riconoscere, riconoscere sempre più fortemente, così che diventi sempre più abituale, familiare, perché la nostra presenza nel mondo sia sempre più redentiva, cioè sia sempre più umanizzante noi stessi e gli altri»[12].

Nel rifiuto del mondo, brilla dunque quel punto di luce che diventa scandalo, che rimanda potentemente alla verità di un altro mondo.

La verginità, infatti, documenta la realtà di un amore più grande e più vero di quello che gli uomini, pur cercandolo, non sanno vivere, e diventa così proposta per la vita di tutti. La verginità documenta nel presente la possibilità di un compimento più autentico dell’esperienza umana, una modalità di possesso della realtà più vero e profondo di quello che qualunque prospettiva puramente umana potrà mai realizzare: «Gesù Cristo, con la sua verginità, non era un mutilato […]. La verginità di Cristo era un modo più profondo di possedere […] le cose»[13].
Questo dono di grazia, vissuto da uomini concreti che condividono le stesse condizioni materiali di tutti, diventa segno di qualcosa di veramente nuovo. La verginità, ribadisce Giussani parlando ai Memores Domini «è la parola che riassume tutto il genio, l’operatività, l’amorosità, l’amore all’umano dei monaci dal 500 al 1300 […]. È vedendo come [questi uomini dedicati a Dio] stavano insieme che la gente rozza di allora, che i barbari hanno capito come si stava tra marito e moglie, tra genitori e figli: è nata l’idea di famiglia cristiana (come è nel cristianesimo)»[14]. Infatti, il compito che Dio affida alle comunità di persone chiamate alla verginità è quello di costituire un «piccolo bozzetto di mondo»[15] – come don Giussani definiva le case dei Memores Domini –, seme di quella modalità di rapporto rinnovata dalla carità a cui sono chiamati tutti i cristiani, a prescindere dalla loro vocazione specifica. «La verginità, nell’ambito della comunità cristiana, costituisce funzione e testimonianza al fine della vita. Per questo là dove una comunità cristiana vive sul serio» le persone sposate e coloro che vivono la verginità «si sentono in una affezione, in una compenetrazione, in una compagnia profondissima, perché non sono due cose staccate, ma due funzioni della stessa realtà»[16]; «[…] la verginità è la virtù cristiana ideale di qualsiasi rapporto, anche del rapporto tra un uomo e una donna sposati […]. Ed è per questo che chi è sposato, le nostre famiglie, quelle poche che hanno veramente raggiunto la gravità di coscienza di che cosa sia il loro rapporto, hanno una venerazione, un desiderio di rapporto e di convivenza con chi è vergine»[17].

Le parole di Giussani sulla verginità sono certamente tra le più decisive che abbiano mai colpito le nostre orecchie, tanto è vero che hanno chiarito in noi, quando eravamo ancora giovanissimi, l’intuizione dello scopo della chiamata che sentivamo provenirci da Dio e hanno poi determinato la forma che la vita di tutti noi ha concretamente assunto. Non dimentichiamole, anche se ripeterle oggi può farci guardare da molti come retrogradi o irresponsabili: per l’ambiente mentale in cui siamo, la verginità è solo un retaggio insensato di epoche passate e oscure. Ma l’insegnamento che abbiamo ricevuto rimane vero oggi come lo è stato ieri, ed è un dono per tutti, a cominciare dai molti fratelli cristiani oggi così confusi! A noi è affidata la responsabilità di custodirlo, oltre che di viverlo.
Un ultimo cenno di approfondimento, volgendo di nuovo lo sguardo all’interno della Chiesa. Joseph Ratzinger – in un testo per noi importante, esposto dall’allora cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede durante il convegno dei movimenti del 1998 – scriveva: «La Chiesa latina ha esplicitamente sottolineato [il] carattere rigorosamente carismatico del ministero presbiterale [ha cioè considerato il sacerdozio come un dono di Dio che nessuno si può attribuire da sé], e l’ha fatto […] vincolando la condizione presbiterale al celibato, che con tutta evidenza può essere inteso solo come carisma personale, e non semplicemente come peculiarità di un ufficio». Di nuovo: la verginità, e quindi il celibato sacerdotale, è un dono dello Spirito, una chiamata che può venire solo da Dio. «La pretesa di separare l’una [la condizione presbiterale] dall’altro [dal celibato] poggia, in definitiva, sull’idea che lo stato presbiterale possa essere considerato non carismatico [cioè non frutto di un dono dello Spirito Santo], bensì – per la sicurezza dell’Istituzione e delle sue esigenze – come puro e semplice ministero che spetta all’Istituzione medesima conferire [ovvero un incarico di servizio che la Chiesa dà a chi vuole, per il suo funzionamento interno]. Se si vuole così totalmente inserire lo stato presbiterale nella propria realtà amministrativa, con le sue sicurezze istituzionali, ecco che il vincolo carismatico, che si trova nella esigenza del celibato, è uno scandalo da eliminare il più presto possibile»[18].

Il legame tra sacerdozio e celibato può essere sentito come una limitazione inutile, che riduce per esempio le possibilità di presenza dei sacerdoti alle comunità prive di sacramenti; in ultima analisi però esso è messo in discussione perché non si accorda con una visione funzionale della Chiesa stessa, che guarda al modello protestante in cui il sacerdozio è ridotto a puro incarico di servizio, per lo più temporaneo. Ratzinger porta infatti il ragionamento fino all’ultima conseguenza: «Ma allora [in questa visione delle cose, che slega in ultima analisi il ministero dal sacramento e il sacramento dall’essere della persona] anche la Chiesa nel suo insieme viene intesa come un ordinamento puramente umano, e la sicurezza, cui si mira in tal modo, non restituisce più affatto ciò che dovrebbe conseguire. Che la Chiesa sia non una nostra Istituzione bensì l’irrompere di qualcos’altro, onde è per natura sua “iuris divini”, è un fatto dal quale consegue che noi non possiamo mai crearcela da noi». Al contrario, conclude Ratzinger, «[…] la Chiesa è interamente se stessa solo laddove sono trascesi i criteri e le modalità delle istituzioni umane»[19].
In altre parole, la verginità diviene segno della natura divina della Chiesa. La Chiesa è dono di un Altro, Gerusalemme che scende dall’alto, sgorga ab aeterno dal mistero stesso di Dio e sorge nella storia da una convocazione che non viene da voce umana: la verginità è segno permanente di tutto questo, anche nella Chiesa e per la Chiesa! Per questo è stata legata al sacerdozio. Una Chiesa dalla quale sparisse l’esperienza vissuta della verginità non sarebbe più segno essa stessa, non sarebbe più canale di qualcosa che va oltre ciò che l’uomo può produrre da sé. Analogamente, se viene meno il celibato sacerdotale, anche «la realtà ontologica della Chiesa scompare dietro una struttura sociologica manipolata dagli uomini»[20], scrive von Balthasar. E aggiunge: «Può essere che in una Chiesa futura i sacerdoti celibi siano in minoranza. Può essere. Ma può essere anche che sull’esempio dei pochi si accenda nella Chiesa una nuova evidenza della giustezza e indispensabilità di questa vita. Può essere che siamo costretti ad attraversare un periodo di fame e sete, ma che proprio questa carenza susciti nuove vocazioni, o, per meglio dire, nuovo coraggio per rispondere alle vocazioni che non mancano mai»[21].

In quanto chiamati alla verginità, gli uomini scelti da Dio sono stati costituiti in mezzo al suo popolo e in mezzo al mondo come un segno escatologico, e ciò non perché siano migliori degli altri e neppure perché si comportino di fatto in modo irreprensibile, ma innanzitutto con la forma stessa della propria vita. Tale forma partecipa infatti di quella che, secondo il piano di Dio, sarà la condizione finale dell’umanità. Ma è altrettanto vero che l’esperienza concreta della verginità si alimenta alla coscienza che Colui che ci compie è un Dio vivo e presente; non possiamo perciò vivere quotidianamente nella verginità, se la preghiera non riempie le nostre giornate, se non rimaniamo in rapporto con Colui che ci ha chiamati, se non ne approfondiamo progressivamente la conoscenza, se non ci identifichiamo sempre più coscientemente con lui. Solo se saremo tutti di Cristo, saremo vergini.
Dobbiamo dunque stimare e insegnare a stimare la verginità nel suo valore ideale. Dobbiamo poi aiutarci a viverla, abbracciando coscientemente la lotta per la castità, che richiede impegno costante ma dona anche una progressiva libertà, riprendendo continuamente la tensione a imitare Cristo in tutto e domandando che venga in aiuto alle nostre deboli forze con la sua grazia, dopo ogni caduta anche lieve che abbia contraddetto ciò che lui ha fatto di noi. Dobbiamo ogni giorno convertirci a Cristo, unica ragione del nostro modo di vivere, unico Tu a cui donarci completamente e che può rendere pienamente umano ogni nostro gesto. Aiutiamoci, affinché il nostro impegno quotidiano sia reale anche se rimaniamo pieni di imperfezione e bisognosi di misericordia da parte di Dio. Aiutiamoci, affinché la nostra risposta al suo appello, che pur rimane così spesso claudicante e imperfetta, sia sempre più sincera. La nostra vita diverrà allora segno e irradiazione di qualcosa che non viene da noi, e in forza della sua bellezza griderà al mondo che Cristo è tutto, che Cristo è vero. Chiediamo a lui la grazia che questa testimonianza si avveri in noi non solo oggettivamente, cioè per la pura forma di vita che abbiamo abbracciato, ma anche per il contenuto concreto delle nostre giornate, per quella esperienza di sacrificio e di consolazione, di fortezza e di compimento, di lotta e di dignità che rende più umani innanzitutto noi che seguiamo Cristo.

Unità

Il secondo dono che riceviamo dall’alto è la nostra unità. Anch’essa ci giunge per grazia, come risposta del Padre alla preghiera di Cristo durante l’ultima cena. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi (Gv 17, 11). Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (Gv 17, 20-21). Il Padre risponde alla preghiera di Gesù donando a quelli che appartengono a lui il miracolo dell’unità. «[…] il segno […] esaurientemente dimostrativo della potenza di Cristo, della presenza di Cristo» ci ha insegnato don Giussani, «è la nostra unità. Non sarebbe Dio se non fosse capace di fare unità tra noi, non sarebbe Dio se non fosse capace di ricreare l’umano diviso, distrutto, in questa unità nuova»[22].
Anche l’unità tra noi, nella Fraternità, nel movimento, nella Chiesa, è dunque un segno anticipatore, qualcosa di umanamente impossibile, di storicamente insostenibile, che accade per grazia e porta nel mondo un riflesso di ciò che saranno i rapporti tra gli uomini nel mondo definitivo. Qui, sulla terra, infatti, noi siamo «anime affaticate et sitibonde»[23]. Tante sono le ferite che si accumulano nel tempo a causa delle frizioni che una stretta vicinanza inevitabilmente porta con sé. Ogni piccola o grande abrasione che ci provochiamo l’un l’altro crea dolore e il dolore ci porta istintivamente a chiuderci. Così crescono facilmente tra noi dei recinti difensivi, perché la paura di soffrire ci spinge ad allontanare l’altro, fino a rifiutarlo, fino ad escluderlo dalla nostra vita. Ma se siamo onesti con noi stessi, vediamo che al fondo di questa sofferenza c’è sempre in qualche misura la nostra libertà, che spesso si determina egoisticamente e autonomamente nel rapporto con gli altri, l’orgoglio per cui tutti, poco o tanto, tendiamo a dominare l’altro, a prevaricare.

L’unità tra noi è un segno anticipatore, qualcosa di umanamente impossibile, di storicamente insostenibile, che accade per grazia.

Questi steccati difensivi sono anzitutto ostacoli o barriere che affaticano i rapporti tra le singole persone, rendendo più rigido anche il corpo della comunità alla quale appartengono. I loro effetti – le distanze personali, le chiusure al dialogo e alla condivisione di sé, le difficoltà nella collaborazione, le incompatibilità – si sommano con il passare del tempo ed è come se determinassero una sclerotizzazione nel soggetto comunitario che formiamo: una casa, l’intera Fraternità, il movimento. La giovinezza di una comunità è, al contrario, la risultante dell’apertura di ciascuno dei suoi membri ad accogliere e riaccogliere l’altro dopo ogni offesa subita, dopo ogni disattenzione o voluta trascuratezza, dopo ogni peccato commesso. Ciò che è vero in una famiglia, è vero anche in una comunità come la nostra. L’unità con l’altro, perciò, nella nostra vita segnata dal peccato, non è possibile storicamente se non nella forma del perdono. La luminosità del segno che siamo, perché siamo stati costituiti in unità, deriva dalla nostra diponibilità a perdonare e a lasciarci perdonare, ad accogliere e a lasciarci sempre riaccogliere.
«Credo […] che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici nell’oscurarsi della grazia del perdono»[24] ci ha detto Ratzinger durante il Meeting del 1990, parlando della Chiesa come una compagnia sempre bisognosa di riforma, cioè sempre sulla via della sua conversione a Cristo. La riforma profonda di ogni comunità, piccola o grande che sia, abbia essa una lunga o breve tradizione, passa per il perdono. «La Chiesa […] è […] una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri»[25]. Anche in questo caso, si tratta di un’esperienza faticosa e imperfetta, di un cammino che è sempre da riprendere e rimane costellato di cadute; ma se la disponibilità a riaccogliere l’altro nella nostra vita è sincera e realmente vissuta, almeno come tentativo, diventa comunque segno e si trasmette ad altri.
Leggendo la Lettera ai Romani durante l’ora di silenzio, sono stato colpito dal capitolo 15, che descrive la dinamica del perdono come sorgente della gloria resa a Dio dall’unità di una comunità cristiana. […] il Dio della perseveranza e della consolazione, scrive Paolo, vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti [gli uni e gli altri di cui si parla, sono i cristiani provenienti dal popolo ebraico e quelli convertiti dal paganesimo, che devono imparare ad accogliere le differenze gli uni degli altri; ciò che scrive san Paolo vale tuttavia anche per le differenze che ci sono tra noi], sull’esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo [cioè nell’unità vissuta nel giudizio di stima per ciò che vale] e una voce sola [cioè nell’unità sensibile in cui si esprime la comune appartenenza] rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio (Rm 15, 5-7).

Accoglierci gli uni gli altri, e dare così gloria a Dio, è possibile solo se ci ricordiamo che anche noi siamo stati accolti da Cristo, come Paolo dice di sé, quando ancora gli eravamo nemici (Rm 5, 10). Guardato con questi occhi, il fratello diventa realmente sacramento di Cristo, tramite che ci porta a lui. Così accade anche tra marito e moglie. L’unità che Cristo rende possibile tra noi, proprio perché è accoglienza reciproca, è una esperienza radicale come quella della verginità. Ogni accoglienza è un’esperienza radicale, perché gratuita, e proprio per questo corrispondente e attrattiva. La base di questa accoglienza reciproca, l’elemento unificante oggettivo su cui si può costruire l’avvicinamento dell’accoglienza, è perciò la fede. Dice infatti san Paolo, nello stesso capitolo: Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo (Rm 15, 13). Questa fede ha per oggetto Cristo e il disegno del Padre a suo e nostro riguardo: un disegno di unità, di unificazione di tutti gli uomini nella stessa fede (cfr. Rm 15, 8-9).

Accoglierci gli uni gli altri, e dare così gloria a Dio, è possibile solo se ci ricordiamo che anche noi siamo stati accolti da Cristo.


La fede, poi, si nutre di memoria, perché io posso veramente imparare ad accordarmi ai sentimenti dell’altro solo sull’esempio di Cristo Gesù (Rm 15, 5): è la contemplazione di Cristo che rende capaci di accogliere noi che non ne siamo capaci. Devo dunque guardare insistentemente a lui, al suo cuore mite e umile (Mt 11, 29) e da lui imparare. Devo guardare frequentemente al mistero di ciò che ha attraversato per la mia salvezza, nella iniziativa divino-umana con cui ha patito per me, mi ha perdonato e mi ha riscattato dal male per puro amore. Dobbiamo insomma tornare frequentemente alla Sacra Scrittura, anche aiutati dalla liturgia che celebriamo ogni giorno. I vangeli nascono da questo guardare Cristo: raccontandoci dei suoi incontri, dei rapporti che instaurava e dei giudizi che esprimeva, ci offrono il riflesso di ciò che egli visse nel suo intimo. Anche i salmi sono il frutto di questa contemplazione, profeticamente concessa ad alcuni grandi spiriti dell’Antico Testamento perché potessero effondere per noi, in parole, il flusso dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. Non dovremmo mai staccarci dalla Sacra Scrittura, che parla tutta solo di lui, per conoscerlo, per crescere nel rapporto con lui, per alimentare la nostra ammirazione e la nostra memoria.[…] quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo (Rm 5, 10). Cristo si dà in anticipo, a vantaggio di coloro che non lo conoscono o lo rifiutano. Si dà tutto per me. Ci ha perdonati, prima e senza che noi glielo chiedessimo. […] mi feci trovare da chi non mi cercava. Dissi: “Eccomi, eccomi” a gente che non invocava il mio nome (Is 65, 1). Se noi contempliamo anche solo un po’ questo mistero, è enorme l’attrattiva che questa gratuità esercita su di noi. Non ha paragoni con nulla. Contemplare questa bellezza ci guarisce. In fondo, la parabola dei due servitori (Mt 18, 23-35) dice proprio questo: solo guardando alla immensità del dono ricevuto da Dio – […] io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato (Mt 18, 32) –, possiamo aprirci a concedere quel piccolo dono umano che è il nostro perdono, di cui il fratello necessita affinché l’unità tra noi si restauri e la distanza che ci ha separato si colmi. Contemplare Cristo non solo ci guarisce, attraverso l’accoglienza reciproca del fratello per il fratello, ma ci comunica una passione paziente per l’umanità che attende Cristo eppure lo rifiuta o non lo conosce. Ci fa desiderare di essere segno di quella accoglienza gratuita, anticipata, immeritata e rivolta a tutti che fu la sua vita sulla terra.

Fratelli miei, conclude Paolo, sono anch’io convinto, per quel che vi riguarda, che voi pure siete pieni di bontà, colmi di ogni conoscenza e capaci di correggervi l’un l’altro (Rm 15, 14). La correzione è lo strumento quotidiano della nostra unificazione reciproca, purché essa sia vissuta a partire dall’amore (dilectio) e dalla conoscenza (scientia) di cui Cristo ci riempie se viviamo in lui.
La gloria di Dio che risplende nell’unità tra gli uomini comincia dunque nella quotidianità delle nostre case, nell’impegno paziente dei nostri rapporti, laddove regna quella pietà che don Massimo ha invocato come anima dei rapporti tra noi[26]. In questi giorni siamo stati richiamati a considerare una realtà che può diventare una preziosa pedagogia di questa pietà. Mi riferisco ai nostri fratelli ammalati. «Non c’è nessuno di noi» ha detto don Oreste Benzi, «o di chiunque venga a contatto con [questi] nostri fratelli […] che non senta un qualcosa di oltre [lo abbiamo percepito con chiarezza quando, ascoltando la testimonianza degli amici che lavorano negli ospedali, siamo stati presi da una profonda commozione], di più grande, di diverso, che ti fa diventare un altro […]. Tutte le volte che la società si difende da loro “eliminandoli”, si disumanizza [per questo le leggi che giustificano la scelta del cosiddetto suicidio assistito o dell’eutanasia sono un vulnus grave nella vita di una società, perché la logica a cui educano va a toccare la credibilità stessa dell’amore e nel tempo disumanizza un intero popolo]. Là dove siamo noi, lì devono essere anche loro [i fratelli che soffrono], perché gli uomini siano veramente tali»[27], cioè aperti al mistero di Dio, che è più grande di ogni nostro possibile calcolo.

Aperti al mistero di Dio, che è più grande di ogni nostro possibile calcolo.

Gioia

Infine, terzo segno dopo la verginità e l’unità è la gioia, un dono che ci parla della meta e, nello stesso tempo, ci indica la necessità di accettare la fatica del cammino.
In una pagina de La verità nasce dalla carne, don Giussani scrive: «[…] la testimonianza rimane il nostro grande compito, un compito il cui esito non è in mano nostra, ma è nel tempo di Dio. Però c’è un segno, c’è una voce, che si fa udire nel vuoto del mondo e che indica, segna, ciò che il Mistero riconosciuto […] produce come cambiamento […]: è la gioia, è l’esperienza della gioia […]. La parola “gioia”, infatti, più ancora che la parola “vita” e più ancora che la parola “vero”, è senza possibile inganno […] non può subire alcuna […] falsificazione [non si può inscenare la gioia con un atteggiamento contraffatto; dove c’è gioia, quindi, c’è verità nell’esperienza di chi la vive]. Incontrare la gioia è l’aspetto più rombante, più clamoroso della testimonianza. È come un compito, per noi, tendere alla gioia, quella gioia che può stare anche con il più grande dolore […], che può stare anche di fronte alla morte […]».[28]

Cristo entra nella nostra vita e la trasfigura, la riempie di doni e la rende se stessa.

Che cosa può significare il compito di tendere alla gioia? Possiamo cercare di vivere sempre a contatto con ciò che genera in noi una vera letizia, tendere cioè a una continua comunione con Cristo e i fratelli; possiamo cercare di rifiutare ciò che la spegne nei nostri cuori, cioè il peccato che oscura questi rapporti. Non possiamo pretendere di vivere nella gioia, perché non possiamo darcela da soli; possiamo però impegnarci a scegliere Cristo, perché Cristo ci ha promesso la sua gioia, e a evitare ciò che non si concilia con Cristo, perché questo contraddice anche la possibilità della gioia[29]. Rallegratevi nel Signore (Fil 4, 4), scrive san Paolo alla comunità cristiana di Filippi. È nel Signore infatti la sorgente di ogni vera allegrezza, di quel sentimento che esprime la fede e la speranza che ci rende saldi anche nella tempesta del dolore o dell’avversità. L’affermazione che la gioia è un compito mi ha ricordato, pur nella grande differenza di sensibilità, un richiamo caro a Chiara Amirante, la fondatrice di Nuovi orizzonti, tra i cui membri ce ne sono alcuni (chiamati i Piccoli della gioia) che esprimono, oltre ai tre voti classici, anche quello che chiamano “voto di gioia”. Sembra strano, come si fa a obbligarsi a vivere una realtà che è la più gratuita e la più improducibile di tutte? Chiara spiega che con quel voto si assume «l’impegno di testimoniare che Gesù Cristo è la Via per la pienezza della gioia»[30].
La pagina di don Giussani che ho iniziato a commentare si conclude così: «Noi dobbiamo supplicare il Signore che ci renda suoi testimoni nel mondo attraverso la nostra gioia. La gioia avviene come la trasfigurazione: non è come una cosa continua; continua sarà in Paradiso [ecco il richiamo alla meta che è intrinseco alla esperienza della gioia]. Ma che essa esploda, o che essa trapeli, o che essa vibri come nascosta e se ne senta la voce, che essa appaia qualche volta nella nostra vita davanti agli occhi di tutti, insomma, che la gioia, secondo il disegno del Padre, punteggi il nostro cammino come pietra miliare che indichi la foce giusta, il destino perseguito in modo esatto [la gioia è conforto nel cammino della conversione, perché indica che la strada è giusta e con questo ci incoraggia a proseguire], è quello che ogni giorno attendiamo. Noi preghiamo la Madonna che interceda per noi presso Iddio […], affinché ognuno di noi abbia la vita graziata dalla gioia, quella gioia che è là dove non sia necessario dimenticare o rinnegare nulla; quella gioia che scaturisce soltanto dalla posizione di Abramo: “Dio è tutto” […]. La gioia nasce solo da questa accettazione totale di Cristo, dalla donazione totale a Cristo»31. Ed è per questo che è segno inequivocabile di lui e «può diventare […] suprema testimonianza alla grande confusione, alla grande ottusità, alla immensa banalità del mondo»[32].
Tutto è nostro, dunque, se noi siamo di Cristo (cfr. 1Cor 3, 22-23). Cristo entra nella nostra vita e la trasfigura – portando in essa ciò che è miracolo, ciò che non è in nostro potere di produrre –, la riempie di doni e la rende se stessa: una vita veramente umana.


Vacanza della Fraternità san Carlo
Passo Campo Carlo Magno, 28 luglio 2019

____________________

Note al testo

1 Luigi Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2007, 187.
2 Ivi, 42.
3 Massimo Camisasca, Parlare a Cristo e parlare di Cristo, inserto in Fraternità e Missione, Anno XXIV, n. 10 (2019).
4 Luigi Giussani, Vita e Spirito nel sacerdote cattolico, Intervento alla Sessione plenaria della Congregazione per il clero sul tema “Vita, ministero e formazione permanente dei sacerdoti” (Roma, 19 ottobre 1993), in 30Giorni, 11 (1993), 37-44, 38.
5 Massimo Camisasca, Parlare a Cristo e parlare di Cristo, op. cit.
6 Jean Daniélou, Il mistero della salvezza delle nazioni, Morcelliana, Brescia 1958, 41.
7 Luigi Giussani, Annunciare la parola di Dio, estratto da Rivista Diocesana Rimini, 59-60 (1971), 17-54, 39.
8 Luigi Giussani, Appunti dalla giornata conclusiva dell’anno sociale, inserto in CL-Litterae Communionis, 7-8 (1991), 7.
9 Luigi Giussani, Annunciare la parola di Dio, op. cit., 48.
10 François Mauriac, Giovedì Santo, Morcelliana, Brescia 1955, 36-37.
11 H. U. von Balthasar, Vivere nel celibato oggi, in Lo Spirito e l’istituzione. Saggi teologici IV, Morcelliana, Brescia 1979, 328.
12 Luigi Giussani, Qui e ora (1984-1985), BUR, Milano 2009, 78.
13 Luigi Giussani, La vocazione della vita, in Litterae Communionis, 6 (2005), 2.
14 Luigi Giussani, Affezione e dimora, BUR, Milano 2001, 431.
15 Luigi Giussani, Memores Domini. Intervista a cura di Lucio Brunelli e Gianni Cardinale, in 30Giorni, 5 (1989), 56-62, 57.
16 Luigi Giussani, La vocazione della vita, op. cit., 3.
17 Luigi Giussani, Affezione e dimora, op. cit., 250.
18 Joseph Ratzinger, I movimenti ecclesiali e la loro collocazione teologica, op. cit.
19 Ibidem.
20 H. U. von Balthasar, Lo Spirito e l’istituzione. Saggi teologici IV, op. cit, 325.
21 Ivi, 328-329.
22 Luigi Giussani, Alla ricerca del volto umano, BUR, Milano 2013, 118.
23 F. Soto de Langa, Anime affaticate et sitibonde, in Canti. Repertorio per Annum, Edizioni Nuovo Mondo, Milano 2006, 46.
24 Joseph Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, in Joseph Ratzinger, La bellezza. La Chiesa, Itaca, Castel Bolognese 2005, 51.
25 Ivi, 50.
26 Massimo Camisasca, Parlare a Cristo e parlare di Cristo, op. cit.
27 Oreste Benzi, Commento a Mt 11, 25-27, in Il pane quotidiano, Anno XVIII (2019), 4, 102.
28 Luigi Giussani, La verità nasce dalla carne, BUR, 2019, 86-87.
29 Cfr. Preghiera di Colletta, XV Domenica del tempo ordinario: «O Dio, che manifesti agli erranti la luce della tua verità, perché possano tornare sulla retta via, concedi a tutti coloro che si professano cristiani di respingere ciò che è contrario a questo nome e di seguire ciò che gli è conforme», in Messale Romano, Conferenza Episcopale Italiana, Roma 1983, 261.
30 Chiara Amirante, Solo l’amore resta. Nuovi orizzonti nell’inferno della strada, Piemme, Milano 2012, 151.
31 Luigi Giussani, La verità nasce dalla carne, op. cit., 87.
32 Ibidem.

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