Dal carcere alla pasta

Nell’istituto penale per minori laziale, giovani come Giulio o Margherita trovano una seconda chance lavorando o studiando. Un articolo di Avvenire.it

Pastificio futuro
Giovani ex detenuti in affidamento, al lavoro al Pastificio Futuro

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«Non voglio che mio figlio segua le orme di suo padre, non voglio che finisca in cella come me. Viene a trovarmi con la madre una volta alla settimana, alla fine dei colloqui sono a pezzi pensando alle sofferenze che ho provocato a loro. Noi qui dentro stiamo male, ma loro fuori stanno ancora più male senza di me. Giuro che quando esco non ci casco più, voglio una vita pulita». Giulio ha compiuto da poco 18 anni ma ha già un bambino di due anni e mezzo. È la seconda volta che finisce a Casal del Marmo, il carcere minorile di Roma dove lo incontro e dove dopo tante cadute sta cercando di rimettersi in piedi e di costruire un futuro. Frequenta la scuola media («se avessi continuato a studiare, forse ora non sarei qui»), un corso di falegnameria e un laboratorio di musica rap, il corpo è tappezzato di tatuaggi a tema religioso. «Perché Dio è l’unico che non ti abbandona mai, anche quando fai le cavolate che ho fatto io. Lui sì che è un vero padre, non come il mio che se n’è andato di casa quando ero piccolo».  Giulio è uno dei 57 giovani che vivono all’Istituto penale per minorenni, in un’area tanto bella quanto scomoda da raggiungere con i mezzi pubblici, come sono costretti a fare tanti familiari dei ragazzi. Gli ospiti scontano pene legate soprattutto a reati contro il patrimonio (furti e rapine), spesso collegati a quelli in materia di stupefacenti. Il 60 per cento dei maschi sono stranieri, in prevalenza nordafricani, «protagonisti di una migrazione che in questi anni ha cambiato pelle – spiega il direttore Giuseppe Chiodo -. Molti arrivano in Europa con un progetto di tipo ‘predatorio’, si muovono da uno Stato all’altro viaggiando senza documenti, cercano di capitalizzare i sistemi di welfare, spesso presentano situazioni di poli-abuso (stupefacenti e psicofarmaci), sono analfabeti anche nella lingua di origine. È difficile costruire opportunità di ripartenza partendo da una situazione così difficile ma ci proviamo, puntando sull’istruzione e sulla formazione professionale. Certo, per chi come loro non ha punti di riferimento esterni, quando si esce da qui diventa tutto più complicato». E infatti molti ritornano in carcere, in un circolo vizioso che lascia aperte domande inquietanti sia sul loro futuro, sia sul modo con cui le istituzioni affrontano un tema così incandescente.

Nel reparto femminile vivono 9 ragazze, i reati prevalenti sono quelli contro la persona, a volte molto gravi. Margherita è arrivata nel 2022 quando aveva 17 anni, ha preso la maturità classica e oggi è iscritta al secondo anno del corso di laurea in design in un ateneo telematico. «Odio questo posto, ma qui ho fatto l’esperienza più preziosa della vita: ho imparato a conoscermi, a fare i conti con aspetti dolorosi del mio passato, a fare riemergere le emozioni che negli anni avevo represso e che hanno finito per travolgermi. L’aiuto della psicoterapeuta che mi segue è stato fondamentale: lei non mi dà risposte, mi accompagna a trovarle. Quando sono entrata tre anni fa ero confusa e spaesata, senza la più pallida idea di chi fossi e di cosa volessi diventare, oggi ho conquistato qualche sicurezza ma credo di non essere ancora pronta per uscire. Quando vado in permesso mi sento un pesce fuor d’acqua, mi fanno paura certe cose che per voi sono normalità: in agosto sono andata in un centro commerciale, mi sentivo osservata da tutte le persone che incrociavo, quando qualcuno rideva credevo che stesse parlando di me, insomma non mi sentivo a posto. Eppure ho fatto tanta strada da quando sono entrata, molte ragazze mi considerano un punto di riferimento, roba da non credere…». Come si immagina Margherita quando sarà fuori da qui? «Sogno un lavoro plasmato dall’arte e una casa in cui vivere circondata dalla bellezza, per ora cerco di decorare al meglio la stanza dove abito. Vedi, all’inizio temevo che essere arrivata qui fosse come essere entrata in una grande parentesi, invece la vita non si è fermata, si è rimessa in movimento. Questo è un posto difficile, ma dove la speranza può rinascere». Di certe ferite profonde che Margherita porta nel cuore sono rimaste le cicatrici, quelle non si cancellano e ricordano il passato, ma la vera sfida è fare pace con sé stessi, oggi. «Ancora non ci sono riuscita, ma spero che un giorno sarò capace di tornare ad amarmi».

Don Nicolò Ceccolini da 14 anni accompagna queste giovani vite che fanno i conti con la fragilità.  «Incontrare ragazzi che a 16 anni sono già disillusi dalla vita e dicono di non sperare più è un pugno nello stomaco, diventa una provocazione. Ho imparato a entrare in punta di piedi nelle loro storie, ho capito che Dio mi sta chiedendo di amarlo in questi corpi crocifissi che sono le loro vite, e che nessun cuore, per quanto indurito, rimane chiuso di fronte alla gratuità, a un amore disinteressato che desidera il bene dell’altro». Don Nicolò ha cominciato a frequentare Casal del Marmo come seminarista della Fraternità sacerdotale dei Missionari di San Carlo, e decisivo è stato l’incontro con padre Gaetano Greco, cappellano per 36 anni e suo predecessore, che ha affiancato per 8 anni. «Quando arrivai mi disse “se sei venuto a cercare un posto dove riposare hai sbagliato tutto, ma se sei venuto a cercarne uno dove imparare cosa sia la paternità non ce n’è di migliori”. Rimasi colpito dalla sua grande umanità capace di non scandalizzarsi di fronte a nulla e di abbracciare le ferite dei ragazzi. Il rapporto con loro si gioca nel saperli accogliere e nell’accompagnarli a trovare sotto la coltre di fango una perla preziosa: la speranza».

Ed è proprio da questa parola – non a caso la parola chiave del Giubileo – che nel 2023 è nato un progetto rivolto ai giovani ristretti a Casal del Marmo oppure sottoposti alle pene alternative o giunti a fine pena. Un luogo dove insegnare un lavoro e offrire la possibilità di praticarlo, uno degli antidoti più potenti alla recidiva e al ritorno nel gorgo della criminalità. Appena fuori dalle mura del carcere c’è l’ingresso del Pastificio Futuro, gestito dalla cooperativa sociale Gustolibero per rispondere all’esortazione che Papa Francesco aveva rivolto ai giovani durante la sua visita all’Istituto penitenziario. Era il 28 marzo 2013, 15 giorni dopo la sua elezione Francesco celebrò la messa del Giovedì Santo dando un segno forte della sua attenzione alle periferie esistenziali, e pronunciò per la prima volta cinque parole ripetute tante volte durante gli incontri con i giovani e che sono divenute il motto del pastificio: «Non lasciatevi rubare la speranza». Oggi la pasta con il marchio Futuro è presente in molti punti vendita del Lazio verrà offerta ai detenuti del Lazio il 14 dicembre in occasione del Giubileo dei carcerati. Questo luogo è diventato anche occasione di eventi significativi: nel mese di agosto, in occasione del Giubileo dei giovani, centinaia di ragazzi sono arrivati qui per incontrare gli ospiti di Casal del Marmo. Don Nicolò racconta un dialogo: «Il carcere ti ha cambiato?». «Il carcere di per sé non mi ha cambiato, ma sono state le persone incontrate qui che mi hanno aiutato a credere che potevo cambiare davvero». Davanti all’ingresso del pastificio campeggia un lungo murale, che verrà inaugurato il 10 novembre alla presenza del cardinale Baldassarre Reina, vicario del Papa per la diocesi di Roma. Racconta il percorso di un chicco di grano che nel tempo diventa spiga, farina e pasta e si conclude con l’abbraccio tra padre Gaetano e Papa Francesco.  Un piccolo grande segno che la vita, anche dopo tante cadute, può sempre ripartire.

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