Parole e silenzi

In dialogo con Don Nicolò Ceccolini, cappellano di un IPM.
Riportiamo l’intervista di Margherita Sermonti per il magazine Lingua italiana, edito dalla Treccani.

Ceccolini Carcere Mg 8082
Don Nicolò a colloquio con un giovane nell’IPM di Casal del Marmo, Roma

Don Nicolò Ceccolini è nato a Cattolica (RN) nel 1987. È stato ordinato sacerdote nel 2013. Dal 2017 è cappellano dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo, a Roma.

Parliamo con lui della sua esperienza con i giovani ristretti, tra parole e silenzi.

Mi è stato raccontato da un volontario in carcere che un ragazzo detenuto gli domandò: «Perché vieni proprio qui a passare il tuo tempo libero? Io farei qualsiasi cosa per stare lontano da questo posto». Lei perché ha scelto di operare in carcere e, in special modo, in un carcere minorile?

Nei numerosi incontri con le scuole dico sempre che in carcere ci si finisce per due motivi: o perché ti arrestano, oppure perché qualcuno ti manda lì. Così è successo a me. Nel 2011, quando per la prima volta iniziai a frequentare il carcere di Casal del Marmo ero un seminarista a cui i superiori decisero di proporre questa esperienza di caritativa settimanale. Ricordo ancora la prima volta: era il 23 marzo. All’epoca avevo più o meno la stessa età dei ragazzi giovani adulti detenuti.

Non avevo alcuna idea di che cosa avrei trovato, di chi avrei incontrato, con quale ambiente avrei dovuto confrontarmi… Certamente l’inizio è stato una grande sfida, era un mondo per me molto lontano da quello che avevo frequentato fino ad allora. Eppure, mi sono trovato bene nel tempo, mi sono sentito accolto prima di tutto dai ragazzi e ora, dopo 14 anni, Casal del Marmo è diventato per me un luogo speciale.

Sono diventato sacerdote nel 2013 nella Fraternità San Carlo, una fraternità sacerdotale di missionari sparsi nel mondo intero. Da quando sono diventato prete, in realtà non mi sono mai mosso da Roma. Qualche confratello, di rientro dai luoghi di missione, ogni tanto mi chiede se non abbia voglia anch’io di partire e lasciare l’Italia. Confesso che non l’ho mai chiesto e ora non ne sento il bisogno. C’è chi ha il “mal d’Africa” e chi il “mal di carcere”. Ho capito però una cosa preziosa. La missione e il compito a cui Dio ci chiama non è partire e raggiungere località esotiche, ma la missione è già qui, tra le strade di Primavalle e quelle dei Parioli. Perché anche Roma è terra di missione. Ho scoperto in verità che il viaggio missionario più interessante che si possa intraprendere è quello nel cuore di ogni persona, in particolare di un giovane. Quando incontro un ragazzo all’interno della sua cella, incontro il suo mondo, fatto di foto della mamma, del babbo, della fidanzata, a volte anche di figli, lettere ricevute o pezzi di carta pronti a partire per nuovi destini. È chiaro che per incontrare veramente un ragazzo o una ragazza detenuti devo essere io disponibile a mettermi in viaggio verso l’altro. È il viaggio più bello che si possa fare: quello che fa incontrare la nostra umanità.

Ci sono due immagini che a mio parere descrivono nel modo più plastico la realtà del carcere. La prima immagine è quella della lente d’ingrandimento. Essa è una lente che ingrandisce aspetti e dimensioni della nostra vita di tutti i giorni e della società in generale. Le dinamiche che si vivono all’interno di un carcere sono portate alle estreme conseguenze e fanno capire meglio quello di cui abbiamo bisogno per vivere. La seconda immagine è quella di una palestra di umanità. Ho trovato un luogo ricco di una grande umanità ferita e dolente. Ma enormemente arricchente. Ho compreso che per incontrare l’umanità dell’altro devi allenare la tua ad allargarsi.

Uno dei motivi per cui ho deciso di rimanere all’interno del carcere e svolgere il mio servizio è l’incontro con tutta questa umanità, che mi sta rendendo nel tempo un uomo migliore. A me piace pensare al carcere minorile come a un luogo dove ancora c’è margine alla speranza, perché abbiamo a che fare con giovani in crescita. Per questo rimango, per aiutare lo spazio di questa speranza.

Quali parole usare con giovani spesso soli e senza speranza?

Quotidianamente all’interno di un carcere minorile ci si confronta con la solitudine e a volte con la perdita di speranza, o meglio, con la rassegnazione. Mi sono però reso conto anche di questa esperienza: i ragazzi del carcere minorile, prima di arrivarvi fisicamente all’interno, il carcere lo avevano già incontrato prima. C’è un carcere invisibile che ognuno di noi si porta dentro, una prigione da cui vorremmo essere liberati. Sono ragazzi innanzitutto prigionieri di sé stessi.

C’è un’altra immagine che forse ci fa comprendere la complessità della realtà di cui stiamo parlando: è quella dell’iceberg. Il reato, che porta un ragazzo o una ragazza in carcere, è solo la punta dell’iceberg che emerge dal mare. C’è in realtà tanto di sommerso che ha preparato e portato a quel reato. Ci sono sbarre invisibili che precedono e accompagnano la vita dei nostri ragazzi. Vorrei elencarne tre che, mi sembrano, quelle più ricorrenti nelle loro storie.

La prima è proprio la solitudine. Durante il periodo della pandemia di qualche anno fa, portai ai ragazzi un articolo di giornale che affrontava il tema della paura della morte e di come avremmo dovuto affrontarla. Ad un certo momento, uno dei ragazzi mi fermò e mi disse che la più grande paura per loro non era quella della morte – tant’è che la morte loro la sfidano, facendo serata, sballando, noleggiando automobili di grossa cilindrata, correndo sulle strade –, e questo dava loro lo stimolo per continuare a vivere per andare avanti. La più grande paura è verso la vita, di rimanere soli ancora una volta nella vita. Questo episodio mi aiutò a comprendere il mio ruolo: non sono chiamato a risolvere chissà quali situazioni, ma ad accompagnarmi a questi ragazzi, per fare un pezzetto di strada insieme, fare spazio alle loro domande, offrire loro quello che sono, e trovare insieme qualche risposta.

Madre Teresa ci ha insegnato che il più povero dei poveri non è chi non ha da mangiare o da bere, ma è chi sa che la propria vita non è amata, non è voluta, non è stimata da qualcuno. Questa è la seconda prigione dei nostri ragazzi, quasi una convinzione sempre più radicata: la mia vita non è degna della stima di nessuno. È una vita sbagliata. E tante volte la rabbia trova nella violenza la strada per esprimersi.

La terza prigione invisibile è quella della mancanza di speranza: sono ragazzi totalmente appiattiti sul presente, senza alcuna capacità di progettare il proprio futuro. E questo riguarda anche ragazzi di buone famiglie e non solo di chi ha alle spalle situazioni difficili. Questo giudizio di stima, di credito, di positività sulla propria vita riguarda ognuno di noi. E questo penso sia il lavoro educativo più urgente che gli adulti hanno: portare questa luce buona sull’esistenza.

E allora quando si incontrano ragazzi così, soli, poveri e disperati, è importante saperli accogliere, incontrarli, incoraggiarli e sostenerli verso una possibilità di vita nuova e un positivo che ognuno di loro si porta già dentro.

In carcere, ci sono molti stranieri e non tutti parlano l’italiano. Ha trovato difficoltà per comunicare con loro? E se sì, quali strategie adotta per arrivare a tutti?

È vero, in carcere ci sono tantissimi stranieri, anche nelle carceri per minori. Roma non fa eccezione. Il 70% circa dei 60 presenti attualmente è minore straniero non accompagnato, arrivato in Italia, tante volte all’età di 11-12 anni, solo, con il barcone.

A volte, la comunicazione con loro non è sempre semplice. Tanti dei nostri ragazzi giungono dalla Stazione Termini, dove hanno vissuto di furti, rapine, estorsioni, spaccio… e l’italiano che conoscono è quello della strada.

In questi anni, la strada migliore di incontro anche con loro è stata quella di farsi comunque presente alla loro vita, cercando di essere attenti alle diverse situazioni personali, per quel che si può. E poi la via del bisogno. Sono ragazzi, specialmente gli stranieri, che non hanno nulla. E cercare di rispondere a un loro bisogno materiale del momento può diventare la strada per un rapporto più profondo, anche se, in qualche modo, occorre mettere in preventivo di “essere usati”.

Lei è un sacerdote cattolico, come riesce a parlare e, soprattutto a comunicare, con chi non ha fede oppure non è cristiano?

Ai miei occhi di prete cattolico, i ragazzi sono tutti uguali e ognuno di loro merita grande attenzione. È chiaro che con alcuni può nascere una relazione di stima e di fiducia più stretta, ma il mio compito, ricevuto dalla Chiesa che mi manda, è che sono lì per tutti. L’importante è rivestirsi di grande rispetto verso la storia, la cultura, la religione dell’altro e trovare quei punti di umanità comuni su cui possiamo costruire qualcosa insieme. Il Signore lo ha detto esplicitamente nel 25° capitolo del Vangelo di Matteo, dove si elencano i gesti d’amore sui quali saremo giudicati (dar da mangiare all’affamato, dar da bere all’assetato, visitare chi è in carcere…), gesti e attenzioni che tutti possono realizzare. Perché tutti siamo capaci di atti d’amore. Il mio desiderio è che ogni ragazzo che incontro possa scoprirsi importante per qualcuno, che la sua vita mi interessa, che sono contento di poterlo incontrare, ma soprattutto di poterlo sognare fuori da quelle mura il prima possibile, senza farci mai più ritorno.

Dialogare, scambiarsi idee e opinioni, non ultimo stabilire rapporti di fiducia: conviene con me che la parola (detta, ascoltata, letta o scritta) può essere uno strumento fondamentale per scalfire la sofferenza della detenzione e, in molti casi, della solitudine? Non pensa che un’afflizione aggiuntiva per chi si trova ristretto sia proprio quella di non avere nessuno cui affidare sentimenti, preoccupazioni, paure e speranze?

Se ci pensiamo bene, i nostri ragazzi in carcere sono ancora gli unici che scrivono e ricevono lettere cartacee. Incredibile! Abituati a correre e a distrarsi con tutto quando sono fuori, una parola ricevuta scritta o orale ha un peso enormemente differente. Ho un esempio emblematico. Qualche anno fa, successe un gravissimo fatto di cronaca che vide coinvolti due ragazzi, allora minorenni. Il fatto mi colpì profondamente e, pur non conoscendoli di persona, decisi di scrivere loro due lettere, con qualche parola di vicinanza. Non so ancora oggi bene perché lo feci. Trascorse un anno senza ricevere risposta. Dopodiché mi arrivò la lettera di uno dei due, dicendomi che aveva custodito il foglio di uno sconosciuto perché in poche parole aveva compreso che c’era qualcosa di vero, ma di aver avuto bisogno di tempo perché le cose successe sedimentassero dentro di lui e si facesse chiarezza. Iniziammo un rapporto epistolare, fino a che non ebbi modo di incontrarlo in carcere per la prima volta. E quello fu l’inizio di visite periodiche. Soprattutto però questo ragazzo mi insegnò la cosa più importante. C’è una parola da tutti comprensibile: quella dell’amore gratuito. Mi disse che ha dovuto rispondere a quella mia prima lettera perché io lo avevo pensato, gli avevo scritto e avevo «sprecato» tempo per lui. Lo spreco o la gratuità, l’amore che non misura troppo i risultati immediati, è la misura dell’amore vero. Non sappiamo quanto una parola vera detta con il cuore possa toccare un altro cuore.

C’è una foto molto bella (qui in copertina) nel sito della Fraternità sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo, che la ritrae con un giovane nell’atto dell’ascolto. Mi fa pensare che in alcuni casi ascoltare in silenzio sia importante tanto quanto parlare.

Certamente, l’ascolto e il silenzio sono a volte la parola più significativa che possiamo dire. Innanzitutto perché i nostri ragazzi ti mettono costantemente alla prova e se non comunichi parole che sono innanzitutto vere per te e sono vita, se ne accorgono subito. Poi, in secondo luogo, davanti a storie, drammi, sofferenze, non ci sono altre parole se non: «Sto qui accanto a te».

Infine, all’interno del carcere minorile di Casal del Marmo ho avuto la fortuna di incontrare un grande uomo: Padre Gaetano Greco, cappellano per 36 anni. Abbiamo vissuto un “affiancamento” di 8 anni. Mi ha voluto bene come un figlio. Mi ha insegnato che il carcere non è innanzitutto il luogo del fare, ma dell’essere. Imparare innanzitutto noi a essere persone vere, credibili, autentiche. Che persona sei? Da lui ho imparato che non sono tanto i discorsi vuoti o le belle parole a costruire, ma la presenza, una quotidianità vissuta accanto ai ragazzi e una parola testata e resa viva dall’esperienza.

Secondo lei, che cosa ci vuole dire papa Francesco, in occasione del Giubileo, con l’apertura della “quinta” porta santa nel carcere romano di Rebibbia?

Sicuramente è un ulteriore gesto del Papa verso una realtà, quella del carcere, molto sofferente e troppo spesso abbandonata a sé stessa, in balìa degli eventi. Il carcere è sempre un luogo di dolore, anche quello minorile. Il segno del Papa è quello di non limitarsi ad aprire porte sante, ma aprire innanzitutto i cuori verso l’incontro con l’altro, verso un nuovo impegno coraggioso a favore dei ragazzi, a costruire luoghi che possano diventare vere famiglie, vere case per tutti coloro che ne cercano una. Come mi scrisse tempo fa un ragazzo, in procinto di terminare la sua pena detentiva: «Mi sentivo abbandonato a me stesso, ma piano piano ho capito che non era così. Se sei con persone che ti vogliono bene e si interessano di te qualunque posto può diventare casa tua». Anche un carcere.

Contenuti correlati

Vedi tutto
  • Testimonianze

Per essere più felici

In un villaggio della savana kenyota, una vacanza missionaria con i bambini per scoprire che la felicità vera è nell'amore gratuito.

  • Daniele Bonanni
Leggi
  • Meditazioni

Icona vivente di Gesù

Perché la Fraternità san Carlo si chiama così? Un parallelo tra don Giussani e il grande santo della Riforma cattolica.

  • Massimo Camisasca
Leggi