Quella domanda di senso

Un prete nelle corsie di un ospedale e il grido di significato che, di fronte al dolore, nessuno può evitare. Una testimonianza da Roma.

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Nicola Ruisi durante una visita al Tiberia Hospital di Roma. 

“Buongiorno, sono il cappellano dell’ospedale!”. “Lo vedo dal colletto” dice l’uomo, indicando con le dita sul suo collo. “Che cerchi?”. Prima che io proferisca parola, abbassando lo sguardo sul cellulare, mi congeda: “Ti saluto!”. Qualche volta è capitato di trovarmi davanti a un muro. Lo scorso Natale, un uomo mi ha accolto con un insulto; un altro, vedendo il colletto, ha fatto il gesto dello stop con la mano e mi ha stroncato con un “Non ho soldi!”. Quest’anno, a Pasqua sono stato accolto con un “Sto bene così! Grazie!” e un “Ah! Non ho bisogno!”.

Gesù è stato maltrattato e insultato molte volte, anche mentre moriva sulla croce. Lo aveva annunciato ai Dodici, Il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi, e li aveva avvertiti: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”.

Finora, non sono mai stato maltrattato. Per contro, mi è capitato di commuovermi talvolta per l’accoglienza benevola e calorosa.

“Che bello vedere un sacerdote in ospedale!” ha detto Giulio, senza preamboli, mentre entravo nella sua camera. Era in piedi, davanti al letto del vicino che si lamentava per il dolore. Mi ha invitato a sedermi e abbiamo parlato per un’ora. Parlavamo sottovoce. L’uomo accanto, nel frattempo, aveva trovato un po’ di pace e si era assopito.

Quando incontro una persona malata, innanzitutto l’ascolto e, nel dire una parola, cerco di trasmetterle la gioia, la pace e la speranza che la compagnia quotidiana del Cristo risorto dona al mio cuore. Infine, la invito a pregare con me e le propongo i sacramenti: la confessione, la comunione e l’unzione.

Da quando svolgo il servizio di assistenza spirituale in ospedale, ho incontrato tante persone con domande di senso. La sofferenza acuisce i loro bisogni più profondi e ridesta quelle domande ultime che, dice don Giussani, «sono il costitutivo, la stoffa dell’umana coscienza, dell’umana ragione». Nel dolore, l’uomo parla più apertamente di Dio e della propria vita, dei dubbi che lo tormentano o delle certezze che lo sostengono, prega e chiede preghiere.

In quell’abisso di dolore, la luce di Cristo spezza le tenebre

In quella lunga conversazione, Giulio mi ha raccontato di sé: “Sono nato per miracolo da un parto podalico complicato e ne porto le conseguenze fisiche. Sono sposato ma il Signore non ci ha donato dei figli”. Ora, sessantenne, Giulio combatte con tre tumori, comparsi l’uno dopo l’altro in un tempo molto breve. Quel giorno, non era il dolore fisico che lo turbava. C’era qualcosa di più interiore e profondo. “Vede, padre – mi ha detto –, in ospedale si preoccupano di mettere a posto le parti fisiche che non vanno, ma io ho un dolore dentro che i medici non possono curare. Potrò morire domani o fra vent’anni, solo il Signore lo sa, il fatto è che oggi io non so dare un senso alla mia sofferenza e a tutto quello che ho fatto nella vita”.

Alla fine della conversazione, salutandomi, Giulio mi ha fatto tremare il cuore: mi ha sorriso e, con gli occhi lucidi, mi ha stretto la mano e ha esclamato “Grazie! Ora so che ho un compito e mi sento meglio!”. Non importa ciò che gli ho detto, importa solo che Giulio ha alzato di nuovo lo sguardo.

Ogni giorno, mi consegno nelle mani del Signore affinché Lui stesso manifesti attraverso di me la compassione e dica ancora una volta a chi è malato: Lo voglio, guarisci!. In ospedale, incontro le persone, forte dell’eucaristia che porto con me. Non sarei capace, altrimenti, di stare davanti a tanto dolore: Il Signore è la mia forza e il mio scudo, ho posto in lui la mia fiducia. Mosso dal desiderio di portare la compassione del Signore in quel luogo di sofferenza umana, io per primo ne faccio esperienza, poiché mi viene dato di vivere con chi incontro un’unità e una familiarità altrimenti impossibili, una comunione capace di guarire il cuore che solo Cristo può generare. In quell’abisso di dolore, la luce di Cristo spezza le tenebre e, rischiarando la via che conduce fuori dall’oscurità, mi rende lieto. In autobus, nel viaggio di ritorno a casa, prego il rosario o il breviario: ringrazio il Signore per quanto mi ha donato e gli chiedo di fare fruttare i germi di bene che ho cercato di seminare. 

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