Mons. Massimo Camisasca, Lei è autore del libro Abita la terra, vivi con fede. Costruire il futuro attraverso le sfide del nostro tempo edito da Piemme: cosa significa essere cristiani nel nostro tempo?
“Essere cristiani” è un’espressione che oggi ci fa subito pensare: “cosa dobbiamo fare?”. È una caratteristica del nostro tempo: si pensa subito all’azione. Non ci fermiamo quasi mai a riflettere su chi siamo. Al contrario, l’espressione “essere cristiani” ci dovrebbe invitare a riflettere su chi siamo diventati nel momento in cui la nostra vita, per scelta libera nostra o dei nostri genitori, è stata resa partecipe della vita di Cristo. Il cristiano è innanzitutto colui che riconosce nella gioia che la sua vita è relativa a quella di un altro. Nel battesimo il cristiano è incorporato nella persona di Gesù, tanto da formare una sola cosa con lui. C’è un primo livello per cui essere cristiani nel nostro tempo significa esattamente ciò che vuol dire essere cristiani in ogni tempo: prendere coscienza di ciò che ci è accaduto, non per merito ma per grazia, e raccontarlo agli altri uomini e donne come un’opportunità bellissima anche per la loro vita.
In secondo luogo essere cristiani nel nostro tempo significa anche qualcosa di nuovo. Dobbiamo parlare di Gesù e raccontarlo con la nostra vita attraverso il linguaggio di oggi, nelle condizioni esistenziali e culturali dei nostri anni. Tutto ciò implica l’essere presenti nelle agorà del nostro tempo, creare luoghi di racconto e di ascolto, mostrare in ogni campo dell’esistenza la bellezza della vita cristiana, segnalare anche la sua antinomia alle varie logiche del mondo, cercare di influire anche attraverso la vita politica affinché l’umanesimo cristiano permei la realtà della pólis, consapevoli del fatto che nessuna forma di vita nel tempo esprimerà mai in pienezza l’ideale personale e sociale che Cristo ha portato nel mondo.
Come sono chiamati a vivere i cristiani la crisi sociale e politica, l’incertezza economica e lavorativa, la preoccupazione per le catastrofi ecologiche?
Cristo non è venuto innanzitutto a risolvere i problemi della vita sulla terra, quanto piuttosto a condividerli. Egli ha condiviso in senso totale la vita dell’uomo, tranne il peccato, che d’altra parte non le appartiene. Naturalmente seguire Gesù vuol dire entrare in una concezione e in un’esperienza nuova della vita, non esente però dalle malattie, dai limiti, dagli errori e dalla morte. Detto tutto ciò, il cristiano partecipa con l’intelligenza e la passione che gli vengono dalla fede alle ricerche e alle lotte di tutti i suoi fratelli. A seconda delle vocazioni, egli si occuperà di economia, ma denuncerà un’economia ridotta alla finanza e sganciata da ogni etica; si occuperà della ricerca scientifica, sapendo che anch’essa ha dei limiti che gli vengono imposti dal bene stesso dell’uomo; parteciperà alla vita politica portando la singolarità di ciò che lui stesso sperimenta come un bene ricevuto, destinato a tutti gli uomini; cercherà e vivrà ascolto, collaborazione, condivisione per un bene più grande…
In che modo è possibile riconsiderare il ruolo della donna nella Chiesa?
Il posto della donna nella Chiesa è sempre stato grandissimo. Forse perché la donna, vivendo l’esperienza della maternità o anche semplicemente il desiderio di essa, è più vicina a Dio. Maria, una donna, è il tipo di ogni fedele. Ella è la Madre del Dio fatto uomo: dobbiamo guardare a lei per comprendere chi siamo. La Chiesa è femminile, come dice spesso papa Francesco. È anche vero che la Chiesa è immersa nel tempo, come le altre istituzioni. Ha avuto bisogno di molto tempo per comprendere che il genio della donna, pur espresso lungo i suoi duemila anni di storia da figure grandissime (si pensi a santa Chiara d’Assisi, santa Caterina da Siena, santa Ildegarda di Bingen, santa Teresa di Calcutta, santa Edith Stein…), poteva essere meglio valorizzato. Penso che molto cammino ci sia ancora da fare, non nella direzione di una clericalizzazione della donna (donna prete, donna diacono…), ma dell’accoglienza del suo contributo originale nella vita quotidiana della comunità ecclesiale.
Essere cristiani nel nostro tempo significa anche qualcosa di nuovo. Dobbiamo parlare di Gesù e raccontarlo con la nostra vita attraverso il linguaggio di oggi, nelle condizioni esistenziali e culturali dei nostri anni.
Quale valore riveste per la Chiesa il celibato ecclesiastico?
Mi sono espresso di recente più volte su questo tema. Fin dalle sue origini, dal tempo stesso di Gesù e degli apostoli, è stato chiesto a coloro che erano chiamati al sacerdozio ordinato un distacco dai beni terreni, fra cui l’esercizio genitale della sessualità. Non si tratta di una svalutazione di essa, né tantomeno di una svalutazione del matrimonio, quanto piuttosto della considerazione che per il sacerdote l’unico bene è Dio. Per poter essere interamente del suo popolo egli deve sprofondare interamente il suo cuore nel suo Dio, a cui tutta la sua vita è dedicata.
Tutto ciò si è andato affermando nei primi secoli, anche con alcune eccezioni; a partire dal IV secolo la Chiesa ha ritenuto di dover esplicitare questo principio attraverso delle norme canoniche. È chiaro: una richiesta così esigente si è andata affermando molto lentamente ed è stata ampiamente contraddetta. Ma ciò non ha mai distolto la Chiesa dalla convinzione dell’assoluta convenienza del celibato per la vita presbiterale.
Quale contributo può offrire oggi alla Chiesa il carisma di Comunione e Liberazione?
Più che di carisma di Comunione e Liberazione parlerei del carisma di don Luigi Giussani. Il termine carisma, infatti, nell’ambito ecclesiale, indica il dono fatto a una persona o a una piccola comunità di persone dallo Spirito Santo per il rinnovamento della Chiesa. Don Giussani è stato un genio della fede cristiana, che ha riproposto con la sua vita il suo insegnamento, mostrandone il fascino a decine di migliaia di giovani. Egli, insieme a tutte queste persone, ha costituito il movimento chiamato prima Gioventù Studentesca e poi Comunione e Liberazione. Penso che sia proprio in questa direzione che vada cercato il contributo di Comunione e Liberazione: cosa vuol dire credere? Perché la fede è un evento comunitario, oltre che personale? Perché la fede non può restringersi nell’ambito delle sacrestie o della vita privata? Cosa vuol dire che essa genera sempre una cultura, come strada di comunicazione di sé agli uomini? Quali sono i suoi rapporti con l’arte, la letteratura, la musica? La fede ci allontana dalla vita o ci avvicina ad essa? Ci rende più uomini o meno uomini? Che rapporto esiste fra la vita presente e quella che ci attende oltre la morte? Sono queste, e altre, le domande a cui don Giussani ha cercato di rispondere. Il contenuto di tali risposte è ancora in gran parte da scoprire. Molti sono i suoi testi ancora inediti. L’insegnamento e l’esperienza di Giussani molto hanno ancora da dire ai tempi che verranno.
Come può tradursi oggi l’impegno dei cristiani in politica?
Ho scritto recentemente che l’impegno dei cristiani in politica è stato quasi irrilevante negli ultimi decenni, perché essi si sono dispersi in mille rivoli e si sono trovati ad obbedire quasi necessariamente ad altri criteri che non a quelli della propria fede, scomparendo nell’agone politico. Non solo: essi si sono combattuti, sono diventati incapaci di ascoltarsi e di relazionarsi. Penso che il lungo cammino di una rilevanza politica dei cattolici, al di là della soluzione partitica che è ben lontana dal potersi individuare, debba cominciare da un ascolto reciproco e da una conversione: l’appartenenza ecclesiale è più forte di ogni appartenenza partitica. In altre parole: per poter essere dei politici efficaci, devono riscoprire di essere cristiani.
pubblicato su: letture.org
Massimo Camisasca
Abita la terra e vivi con fede
Costruire il futuro attraverso le sfide del nostro tempo
Piemme 2020
pp. 224