Ci sono due parole della nostra lingua che amo più di tutte le altre: casa e pane. Mi sono care, perché sono fondamentali le esperienze che nascono con loro.
Casa: mi parla dell’abitare assieme, sotto lo stesso tetto. Del luogo dove si torna ogni sera, dove si custodiscono le cose più familiari e durature, dove si vivono i rapporti più decisivi, anche i più difficili, i più duri, ma infine quelli che incidono maggiormente nel costituirsi della nostra personalità.
Pane: mi fa pensare alle necessità primordiali, alla fame, alla sete, al bisogno di relazioni, di affetti, alla corporeità del nostro essere. Ma anche alla tavola, alla condivisione, al riposo, all’arricchimento reciproco.
Mi dicono che pane e casa siano le parole più ricorrenti ne I promessi sposi di Manzoni. Non so se sia vero. Se comunque lo fosse non mi stupirei.
Casa e pane: le due realtà che mi introducono alla comunione.
La mia riflessione parte da qui, da ciò che è necessario per vivere, il pane e la casa. Le realtà più comuni mi proiettano verso l’origine lontana di tutto l’Essere. A un certo punto della mia esistenza ho cominciato a stupirmi in modo consapevole di fronte alla vita. Quello stupore che, nei primi anni dell’esistenza cosciente, coincide con la scoperta delle cose, nella maturità diventa domanda radicale: cosa c’è all’origine e cosa c’è alla fine? Non è vero che queste siano questioni infantili o al più relegabili al periodo dell’adolescenza. Sono domande che non ci lasciano mai. Innescano in noi un ragionamento particolare che coglie nelle cose e negli avvenimenti alcuni segni e da essi vuol risalire all’origine, al fondamento.
Tutto si gioca nella scoperta e nel riconoscimento della presenza misteriosa che abita le nostre giornate.
Questo processo è stato l’alimentazione della mia vita matura. Senza tale alimento la mia esistenza si sarebbe, a poco a poco, inaridita.
Qualche anno fa l’albero di noce che stava di fronte alla mia casa di campagna si è seccato. L’aridità senza precedenti di quell’estate gli aveva prosciugato le radici, così che in breve tempo tutto l’albero era morto. Rimaneva ancora qualche foglia verde qua e là, in cima, ma erano come gli ultimi sussulti di una vita che si stava spegnendo. Mancava la linfa: l’alimentazione, che deve essere quotidiana, era stata interrotta da una siccità di sei mesi.
Allo stesso modo, esistono forme di siccità che minacciano la nostra vita. Non devono essere confuse con le aridità del cuore, attraverso le quali può avvenire una più profonda scoperta di Dio, come accade in quei terreni lasciati a riposo alcuni mesi prima di una seconda aratura e di una nuova messe. L’aridità cattiva di cui parlo è data dall’assenza di ciò che alimenta la persona, cioè dall’assenza di domande. Se queste vengono meno, tutto si spegne, a poco a poco le luci scompaiono e non ci si riprende più: si diventa come un cervello che per troppo tempo non abbia più ricevuto sangue adeguatamente ossigenato. Tutta la vita dipende dall’alimentazione che la nostra esistenza riceve dalla sua segreta radice. Tutto si gioca nella scoperta e nel riconoscimento della presenza misteriosa che abita le nostre giornate.
M. Camisasca
Nessuno si conosce da solo
I passi della vita comune
Marcianum Press 2022