Nell’introduzione a Spe salvi, commentando la lettera ai Romani che dà nome all’enciclica, Benedetto XVI scrisse che tra i grandi difetti della visione pagana della storia vi era, senz’altro, il fatto di non riuscire a «emanare alcuna speranza». Questo faceva sì che i pagani si trovassero sempre «in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro». Per offrirci con chiarezza l’idea di questo destino cupo dell’umanità precristiana, Ratzinger citò un epitaffio latino tratto dal Corpus Inscriptionum Latinorum: «In nihil ab nihilo quam cito recidimus» (nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo). Quell’iscrizione tombale, così fredda e priva di qualsiasi attesa di fede, ci è tornata in mente in questi giorni di lutto coincisi con la lettura di Mistero dei misteri: la speranza secondo Péguy (Brescia, Morcelliana, 2022, pagine 196, euro 16) di don Paolo Prosperi.
Grazie alla mediazione del commentatore, siamo riusciti a condurci attraverso i versi di Péguy senza perdere l’orientamento nei suoi voli pindarici, in tutti quei leitmotiv apparentemente sconnessi, che si rincorrono di continuo senza mai davvero unirsi. Prosperi, invece, è riuscito a operare questa connessione e a far emergere il vero nocciolo del trittico: il misterioso paradosso della speranza cristiana. Una speranza che aveva fatto infuriare Karl Marx, per la sua capacità dialienare il desiderio umano, proiettandolo verso un futuro che sta oltre il tempo.
Da buon socialista, convertitosi al cattolicesimo, Péguy è innamorato dell’immanenza almeno quanto Marx, ma nei suoi versi la speranza assume una funzione di segno opposto: grazie all’energia alimentata continuamente dalla luce di Cristo, l’uomo può gustare la bellezza della sua condizione, della carne e del tempo. Può dare realtà a ciò che ancora non è, pregustandola nel cuore e ammirando il presente, il qui e ora, la creazione, come se fosse appena «sgusciata dalle mani del Creatore». Ma il Cristo di Péguy non è quello predicato dai chierici del suo tempo: un essere angelicato che rifiuta il secolo e fugge la carne. «Se Cristo avesse voluto sottrarsi al mondo, sarebbe rimasto tranquillo alla destra del Padre», scrive in Veronique, «Siccome invece è venuto al mondo, allora (…) io (la Storia) devo avere una certa importanza. (…) Quanto devo essere grande io (…) per aver messo in moto una storia così tragica (…) Dio si è scomodato per me. Ecco il cristianesimo». È questa, secondo Péguy, la ragione per cui vale la pena continuare a lottare per l’uomo, nonostante le disillusioni e le frustrazioni cui è possibile andare incontro, perché «è per lui che Dio si è scomodato».
Nel Mistero della carità di Giovanna d’Arco, lo scrittore francese pone sulla bocca della pulzella d’Orléans un dubbio metafisico che, in questo momento, attanaglia anche noi: perché Dio permette che due popoli cristiani sfoderino le spade gli uni contro gli altri? Perché non li impedisce? Perché non li disarma? La risposta a queste domande, però, non è questione di fede né di carità, ma di speranza. Péguy ne è così convinto da osare contraddire la nota mazione di Paolo in 1Cor 13,13: «Fede, speranza e carità, ma più grande di tutte la carità». Nel suo trittico, infatti, è la speranza «la più grande di tutte» le virtù cristiane. È in essa la chiave di volta di tutta la teodicea. «La Speranza — scrive Péguy — è una bambina da nulla / che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso / Che gioca ancora con babbo gennaio / Eppure è questa bambina che attraverserà i mondi». Poco più in là, Péguy affida a Dio stesso l’esegesi dei suoi versi: «La carità non mi stupisce. La carità va da sé / per amare il prossimo basta solo lasciarsi andare. La Speranza invece (…) mi stupisce (…), che quei poveri figli vedano come vanno le cose e credano che andrà meglio domattina (…) Questa è la più grande meraviglia della nostra grazia».
Il Portico del mistero della seconda virtù si apre proprio con questa affermazione: «La speranza sola stupisce Dio». Hans U. von Balthasar scrisse moltissimo sulla questione teologica dello «stupore di Dio», dando una robusta base speculativa all’intuizione poetica di Péguy, ma non è questa la questione più importante: nel verso che apre il Portico, Dio opera una distinzione fondamentale tra «l’anima che crede» e l’anima «che spera».L’anima che spera deve aver ricevuto una grande grazia, altrimenti non le sarebbe possibile portare in anticipo l’eternità sulle sue spalle piccole e fragili, mentre si imbatte nella delusione di non essere stata esaudita. Non le sarebbe possibile «attraversare la tempesta, come una piccola candela tremolante, senza spegnersi». Per spiegarsi meglio, Péguy adopera la metafora dei contadini di Lorena. Quegli umili, infaticabili lavoratori della terra che sanno raccogliere e incanalare in una fonte zampillante tutta l’acqua che scivola a terra nei temporali. «Dell’acqua che serve per inondare ed avvelenare / loro (i contadini di Lorena) si servono per annaffiare i più bei giardini del mondo». Leggendo questi versi, il nostro pensiero è corso alle parole usate da Papa Francesco in occasione della solennità di Maria Santissima Madre di Dio: «Proprio in questo nuovo anno, abbiamo bisogno della speranza come la terra della pioggia».
pubblicato su L’Osservatore Romano del 7-1-2023, p. 10
Paolo Prosperi
Mistero dei misteri
La speranza secondo Péguy
Scholé 2023