Il più grande successo

Insegnare religione a Vienna può essere una sfida con qualche insuccesso, ma riserva anche belle sorprese.

Matteo Dall’Agata è viceparroco dell’Annunciazione di Maria Vergine e insegnante di Religione a Vienna (Austria). Nella foto, con un gruppo di giovani.

Da sei anni insegno nelle scuole medie e superiori a Vienna. L’insegnamento offre un punto di osservazione ricchissimo per conoscere la gente a cui sono mandato. A scuola, per esempio, incontro la dimensione multireligiosa della città, che in parrocchia non trovo. Il primo istituto in cui ho insegnato era in un quartiere periferico della città, dove vivono ragazzi musulmani, ortodossi, come anche evangelici e cattolici. Un concentrato di ragazzi da tutto il mondo si incontra e, sfruttando una pausa o una supplenza, nascono spesso dei dialoghi belli.
Il ministero dell’educazione, in accordo con la Chiesa locale, dispone dei programmi generali per gli insegnanti, ma li lascia liberi di scegliere i contenuti più precisi. Questa è un’occasione non da poco, perché in Austria si va al catechismo della parrocchia solo un anno per prepararsi alla prima comunione e un altro per la cresima, quindi non si ha molto tempo per fare una percorso con loro.
Dentro la libertà che l’aula scolastica offre, capire cosa proporre ai ragazzi è la prima sfida. Quando insegno, infatti, mi chiedo spesso se le cose che comunico siano comprensibili o utili agli scolari. Non so se fra qualche anno qualcuno di loro tornerà a ringraziarmi per ciò che ha sentito a lezione. So solo che è necessario seminare generosamente, senza esser risentiti se non si trova subito entusiasmo. Un sacerdote più anziano, anche lui insegnante, quando gli ho raccontato di alcuni miei insuccessi, mi ha detto: “Insuccessi? Il più grande successo è che sei lì, che i ragazzi e i colleghi ti vedono. Esserci supera qualunque insuccesso”. In effetti, essere in classe è una grande occasione per instaurare rapporti.
Da qualche mese, cioè da quando ho cambiato istituto, ho un ulteriore vantaggio: insegno a cinque minuti a piedi da casa e lungo il tragitto, incontro spesso i miei studenti o altri ragazzi che hanno fatto la preparazione alla cresima nella nostra parrocchia e vanno a lezione in quella scuola. Quando posso, mi fermo sempre a fare due chiacchiere.
Un ragazzo cinese, che mi saluta sempre molto cordialmente, una volta mi ha chiesto se sono parente di un suo compagno, perché lo vede spesso chiacchierare con me. Gli ho spiegato che lo conosco dalla prima comunione e che poi, dopo la cresima, avevamo fatto con tutto il gruppo del catechismo un pellegrinaggio a Roma, così eravamo entrati maggiormente in rapporto. Lui non conosce molto il cristianesimo e mi ha chiesto cosa fosse un pellegrinaggio. Dopo che glielo ho spiegato mi ha chiesto: “Ne fate altre di queste iniziative? Verrei volentieri anch’io”.
Alla fine, i ragazzi si affezionano. Alcuni mi salutano per strada o nei corridoi della scuola chiamando in italiano: “padre!”, con simpatia. Un episodio per me significativo è accaduto l’anno passato, quando ho annunciato a una classe che all’anno seguente, per una questione di monte ore, non avrei più fatto lezione con loro. A parte uno, a settembre si sono disiscritti tutti dal corso di Religione per passare alle lezioni di Etica. Quando poi, diversamente da ciò che gli avevo detto, ho preso comunque la loro classe, sono tutti ritornati a Religione. Così siamo stati insieme un altro anno.
Una delle soddisfazioni più grandi però mi è arrivata da una studentessa che, durante un’esercitazione in classe, ha dimostrato di aver capito cosa, in fondo, voglio da loro. Per un progetto scolastico, dovevo trattare il tema della salute, secondo il punto di vista della religione. Mentre erano lì a scervellarsi coi testi e le domande date, tutt’altro che semplici, lei salta su e dice: “Ecco cos’è l’ora di religione: indagare e farsi domande sul senso di tutte le cose, sul senso della vita!”

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