Cari fratelli e sorelle,
la liturgia della Parola che abbiamo ora proclamato, in stretta connessione con la liturgia eucaristica che tra poco celebreremo, si è aperta davanti a noi come un dittico. Nella prima anta, dove abbiamo assistito al peccato che sta all’origine della storia dell’uomo, vediamo un avvenimento di morte. Nella seconda anta, tratta dal vangelo di Luca, risplende un avvenimento di vita. Il sì di una giovane donna permette a Dio di diventare uomo, compiendo così il cammino inverso rispetto a quello delle origini. All’inizio l’uomo avrebbe voluto diventare Dio: non solo questo è impossibile, ma l’effetto di questo atto di orgoglio è la frantumazione dell’unità originaria con cui Dio aveva pensato il mondo e il suo rapporto con gli uomini.
Tale è esattamente il problema dell’uomo e della cultura di oggi: l’uomo non vuole più saperne di Dio perché pensa di essere Dio. Se l’uomo è Dio, la scienza, la tecnica, l’economia, la vita stessa nelle sue origini e nella sua fine, tutto diventa oggetto nelle mani dei potenti, senza nessuna regola né etica, e le relazioni fra gli uomini si convertono necessariamente in uno stato di guerra. Noi sappiamo che l’uomo diventerà sì come Dio, ma la sua partecipazione alla vita divina si compirà non per volontà dell’uomo, ma solo per un dono di grazia di Dio stesso.
Noi sappiamo che l’uomo diventerà sì come Dio, ma la sua partecipazione alla vita divina si compirà non per volontà dell’uomo, ma solo per un dono di grazia di Dio stesso.
Nel racconto del Vangelo questa unità tra persona umana e Creatore è di nuovo definitivamente assicurata: come nel no di Eva ci siamo tutti noi, così tutta l’umanità è rappresentata nel sì di Maria.
Al centro di questo dittico sta il brano della lettera di san Paolo agli Efesini che ci racconta l’iniziativa continua di Dio per ristabilire la comunione originaria, soprattutto con l’uomo e, in dipendenza da essa, con tutto l’universo. Prima della creazione del mondo, forse anche in vista della possibilità della disobbedienza, Dio ha scelto un popolo – una stirpe, dice il brano genesiaco – come strumento della nuova pace universale. A questo popolo ha voluto trasmettere la sua santità. Prevedendo l’Incarnazione, ci ha fatto partecipi della figliolanza del Verbo, il Figlio amato. Noi siamo così diventati gli eredi della vita di Dio che egli, ancor prima della creazione del mondo, aveva sognato di donarci.
Se questo è il disegno generale della liturgia di oggi, dobbiamo ora entrare in modo ancora più particolareggiato in alcune domande che i testi proclamati possono suscitare in noi. Che cosa è accaduto veramente all’inizio del mondo? In che cosa è consistito il peccato? Qual è il posto di Maria in tutto questo cammino di ritorno dell’uomo a Dio?
Noi non sappiamo che cosa storicamente sia accaduto. Attraverso un genere letterario, probabilmente molto debitore ai racconti dei popoli vicini, l’autore biblico ci vuole trasmettere alcune verità fondamentali. Dio aveva preparato per gli uomini un giardino, cioè un’abitazione piena di bellezza, di luce e di fecondità. L’uomo – e intendiamo con questa parola non tanto un singolo essere umano, ma l’umanità delle origini – dotato di libero arbitrio, ha rifiutato non tanto questa abitazione, quanto il suo posto in essa. Voleva essere al primo posto, non al secondo. Ha sognato, accogliendo il suggerimento di Satana, di poter essere il creatore e non la creatura. Il comandamento divino di mangiare da tutti gli alberi tranne che dall’albero del bene e del male (cfr. Gen 2, 16-17) era in realtà un monito paterno perché l’umanità si ricordasse di questa verità fondamentale: la strada della felicità e della pace nasce per l’uomo e la donna dall’accoglienza del proprio statuto di creature, cioè dal riconoscimento di un Padre che, nella sua sapienza e bontà, dispone tempi e modi perché la conoscenza del bene e del male non sia per la morte, ma per la vita. La conoscenza del bene e del male, infatti, presuppone un cuore preparato, illuminato dal rapporto con il Padre.
Il rifiuto dell’uomo, come si vede dai primi capitoli del libro della Genesi, ha influito su tutta la storia dell’umanità. È questo il senso di ciò che chiamiamo “peccato originale”. Nella disobbedienza, il DNA dell’uomo è mutato e ha portato nella disobbedienza tutti i suoi successori. Certo, senza adesione personale non c’è colpa. La rottura portata da Adamo ed Eva è piuttosto un’inclinazione al male da cui non possiamo liberarci con le nostre sole forze, con atti di volontà o con un’obbedienza alla legge. Era questo il dramma di san Paolo: chi ci libererà da questo corpo di morte? (cfr. Rom 7, 24). Al di là di qualunque speculazione filosofica o teologica, il cosiddetto peccato originale è un’evidenza che sperimentiamo dentro di noi. Anche noi, come san Paolo, ci sentiamo attratti dal bene in certi momenti della nostra vita, ma poi facciamo il male (cfr. Rom 7,19). Anche noi, come lui, gridiamo: chi ci libererà?
Occorreva una libertà umana in cui, per grazia di Dio, esistesse soltanto il sì, solo l’attrazione verso il bene, la disponibilità di tutta la propria libertà all’opera di Dio. Questo è il senso della concezione immacolata di Maria: non un privilegio, ma un’infinita disponibilità al sì per diventare il grembo del sì del Figlio. In questi sì, della Madre e del Figlio, tutta l’umanità si orienta di nuovo verso il Creatore.
Questo è il senso della concezione immacolata di Maria: non un privilegio, ma un’infinita disponibilità al sì per diventare il grembo del sì del Figlio. In questi sì, della Madre e del Figlio, tutta l’umanità si orienta di nuovo verso il Creatore.
Questo è il posto di Maria, come ha scritto Dante, «umile e alta, più che creatura» (Dante Alighieri, Paradiso XXXIII, v. 2): la sua umiltà era pura e totale disponibilità all’opera di Dio. Questa umiltà l’ha resa la donna più importante della storia del mondo, come lei stessa dice nel Magnificat: ha guardato l’umiltà della sua serva. Per questo ogni generazione mi chiamerà beata (cfr. Lc 1, 48).
Nella festa di oggi sorgono in noi due sentimenti. Innanzitutto un sentimento di gratitudine a Dio per la fedeltà al suo disegno. Questa fedeltà ci parla di una bontà fondamentale dell’opera di Dio che appare nella creazione e nella salvezza. Non c’è morte, non c’è divisione, non c’è dramma che possano cancellare questo disegno: oltre la morte c’è infatti la vita. Oltre la fatica e il dolore, la luce e la gioia.
Da questo sentimento di gratitudine, che da Dio si allarga a Maria, nasce in noi anche un desiderio di imitazione. Il desiderio di aprirci allo sguardo di Maria, ai colori che promanano dalla sua persona, alla promessa di purezza e di pace che ella va ripetendo nel mondo attraverso le sue numerosissime apparizioni.
Abbiamo bisogno di tutto questo per attraversare con coraggio questo momento difficile ed approdare con pazienza e costruttività ad una nuova stagione della vita nostra e del mondo.
Amen.
Omelia nella solennità dell’Immacolata Concezione della B. V. Maria
Cattedrale di Reggio Emilia, 8 dicembre 2020