Perché niente vada perduto

La storia della vocazione di Giacomo Landoni, novello sacerdote della Fraternità san Carlo.

Giacomo Landoni, 34 anni, di Milano, vive a Roma e lavora nella segreteria generale della San Carlo. Nella foto, un abbraccio dopo l’ordinazione diaconale (luglio 2022).

La prima volta che mi è passata per la testa la strana idea di entrare in seminario era la mattina del 14 agosto del 2013: ero appena tornato da un pellegrinaggio a Czestochowa. 120 chilometri in mezzo alla campagna polacca insieme a diverse centinaia di giovani che come me finivano l’università e si recavano dalla Madonna Nera per affidarle il proprio futuro.
Certo, ora vedo che tutto della mia vita è servito a Dio per farmi suo, ma riconosco anche che quell’anno erano accaduti fatti particolari. Soprattutto, il rapporto con una ragazza che non era andato come io avrei desiderato: la ferita c’era, ma c’era anche la gratitudine per la verità dell’innamoramento vissuto, insieme alla certezza che la mia vita era bella. Cosa la rendeva bella? Più mi chiedevo questo e più mi rispondevo che tutto ciò che di bello c’era nella mia vita, in un modo o nell’altro, aveva a che fare con la mia fede: le amicizie, lo sport, la famiglia… Anche se spesso non sapevo dire che relazione c’era tra Cristo e quanto vivevo, mi era però chiaro che se avessi tolto Lui dalla mia vita non sarebbe rimasto niente di bello.
È per questo che all’inizio del mio ultimo anno di università ho deciso di andare a Czestochowa. Lì, ho fatto una vera esperienza di pienezza: pur mancando di tanti amici o di tante cose di cui mi riempivo la vita, in quei giorni ero lieto. E cosa facevamo, se non camminare dietro la croce di Cristo?

Tutta la mia vita aveva preparato il mio cuore per prendersi cura di quel piccolo seme.


Così, la mattina di quel 14 agosto 2013, mi ha fulminato questo pensiero: e se il buon Dio mi stesse chiedendo di dargli tutta la vita per dire a tutti che la vita con Lui è la vita più bella e più piena che ci sia? Questo pensiero mi è capitato: non è stato l’esito di un ragionamento, ma un pensiero che mi è stato dato. Soffocarlo sarebbe stato molto facile, ma ora capisco che tutta la mia vita aveva preparato il mio cuore per prendersi cura di quel piccolo seme: la stima per la figura del sacerdote che avevo imparato in famiglia, l’importanza della preghiera che i miei genitori mi avevano trasmesso, la bellezza della fede cristiana vissuta con gli amici del liceo e dell’università.
A settembre, finite le vacanze, sono andato a consegnare questo pensiero a don Marco Barbetta, già mio caro amico. Una volta vuotato il sacco, don Marco, così come per tutto l’anno successivo, non mi ha dato grandi soluzioni, mi ha invitato invece a continuare a fare ciò che dovevo fare, ciò che più mi coinvolgeva e ciò che più mi aveva fatto crescere. Nel tempo ho capito perché non mi indicava mai soluzioni geniali, che pure aspettavo e quasi pretendevo: perché lui era chiamato a custodire e a servire il rapporto che Dio aveva iniziato con me, consigliandomi e correggendomi, ma sempre invitandomi a cercare nella mia vita e nel dialogo con Dio le risposte alle domande che avevo.
È così che, nei tre anni successivi, questo strano desiderio che avevo di servire Dio ha trovato una risposta concreta nell’incontro con la Fraternità san Carlo, innanzitutto nella persona di don Matteo Invernizzi e poi di don Francesco Ferrari. Quegli anni sono stati anche il fiorire del mio rapporto personale con Dio nella preghiera e nella verità di certe amicizie, tanto che proprio nel rapporto con alcuni amici, ho capito che avrei davvero voluto dare tutta la mia vita a Cristo. L’ultima indecisione era vinta.
Il 6 settembre 2016, don Paolo Sottopietra mi ha accolto nella Casa di formazione della Fraternità san Carlo.
Non è una storia eclatante, la mia. Eppure, la grandezza e la bellezza dell’ordinarietà che ho vissuto sono il contenuto di un disegno buono che, nel tempo, mi veniva svelato e a cui ero chiamato ad aderire per non lasciare che tutto quanto di buono e di bello già c’era nella mia vita andasse perduto, ma anzi portasse ancora più frutto.

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