Mi sono spesso chiesto come la folla che oggi acclama Gesù Re di Israele e Messia potrà mutare radicalmente umore e reclamare la sua uccisione gridando davanti a Pilato: Crocifiggilo! (Mc 15, 14.14).
Nel capitolo 11 del suo Vangelo, Marco riporta i fatti legati all’arrivo di Gesù a Gerusalemme per quella che si rivelerà essere la sua ultima Pasqua. Conclusa l’erta salita che da Gerico porta alla capitale di Giuda e prima di iniziare la discesa del monte degli Ulivi, Gesù fa sosta dalle parti di Betfage e manda due discepoli a prendere un asinello. Quando glielo conducono, lascia che lo addobbino a festa usando i loro mantelli, poi vi sale ed entra così in città (cfr. Mc 11, 1-7). Attorno a lui fa ressa una folla entusiasta. Molti, racconta Marco, stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi (Mc 11, 8). Viene anche intonato un Salmo, il 118, che celebra l’intronizzazione del re: Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mc 11, 9-10).
Come potrà dunque questa gente, fra pochissimi giorni, chiedere la sua condanna?
Può essere che non si tratti delle stesse persone. L’evangelista Matteo distingue infatti con maggiore precisione due gruppi. Da una parte i pellegrini che giungono a Gerusalemme per la festa, provenienti dalla Galilea e da più lontano, fin dai territori della diaspora. Tra loro si trovano anche persone che non appartengono al popolo ebraico, ma partecipano ai suoi riti, attratti dalla religiosità di Israele. Dall’altra, gli abitanti di Gerusalemme. L’atteggiamento di questi ultimi verso i rivolgimenti politici è in generale più scettico e non si lasciano suggestionare facilmente da chi si presenta come Messia. Ne hanno visti passare tanti, si ricordano le tremende file di croci innalzate dai Romani per sedare le rivolte e sanno che le speranze di libertà muoiono nel sangue. Su di loro fa presa l’influenza dei capi, installati nel tempio di Gerusalemme, che governano la vita cultuale del popolo e gestiscono i rapporti con gli invasori. Sono perciò in allerta ogni volta che un volto nuovo si segnala nella città che si riempie per le feste (cfr. Mt 21, 10). Al contrario, il primo gruppo non calcola, è affascinato da Gesù e lo segue. Oggi gettano addirittura i loro mantelli sotto gli zoccoli dell’asino su cui siede il Messia.
Questa prima risposta, pur parzialmente vera, potrebbe tuttavia rivelarsi semplicistica. Dai Vangeli sappiamo infatti che Gesù aveva discepoli anche nella capitale, e perfino tra i capi (Gv 12, 42). Anche a Gerusalemme, inoltre, come era accaduto in Galilea, molti avevano avuto occasione di vederlo e ascoltarlo e ne erano rimasti colpiti. Giovanni racconta addirittura che un giorno i soldati della guardia del tempio, mandati ad arrestare Gesù, tornano a mani vuote dai sacerdoti dicendo: Mai un uomo ha parlato così (Gv 7, 46).
Cristo ci testimonia che il male deve essere chiamato per nome e combattuto fino all’ultimo, mentre il bene riconosciuto e valorizzato. Ci insegna che la fede si può sviluppare nella chiarezza del giudizio e nella libertà di riconoscere la verità.
Certamente la maggior parte di coloro che grideranno: Crocifiggilo! (Mc 15, 14.14) non hanno mai conosciuto davvero Gesù, ma possiamo pensare che anche qualcuno di questi simpatizzanti abbia ceduto quel giorno alla pressione dei capi che volevano Gesù morto.
I vangeli ci presentano dunque chiaramente la terribile realtà della non fede, di un indurimento dei cuori che comincia dai capi e giunge a toccare il popolo impedendo il riconoscimento di Gesù. Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui (Gv 12, 37), scrive per esempio Giovanni. E tuttavia, gli evangelisti sono anche attenti a registrare la realtà di una fede ancora acerba, non abbastanza forte per portare il peso della riprovazione dei capi. Molti di quelli che credevano in Gesù, scrive ancora Giovanni, a causa dei farisei non lo dichiaravano (Gv 12, 42), temendo ripercussioni sulla loro posizione sociale. La loro fede si accende davanti ai miracoli di Gesù e alle parole con cui arriva dritto al cuore, ma si raffredda velocemente quando Gesù si allontana da loro anche solo di un passo ed essi vengono ripresi dalle ordinarie preoccupazioni della vita.
Giovanni ci mostra questo tipo di esperienza della fede in un altro episodio. Dopo uno scontro verbale con Gesù avvenuto nel tempio, durante la festa della Dedicazione, i Giudei tentano di catturarlo. Gesù allora scende nella valle del Giordano e si rifugia oltre il fiume. È un luogo caro ai discepoli di Giovanni il Battista, ormai morto per mano di Erode, che qui lo avevano ascoltato e si erano fatti battezzare. Un gruppo di queste persone raggiungono infatti Gesù e si trattengono con lui, lontani dalle tensioni che si respirano in Gerusalemme. Essi possono testimoniare la solidità delle profezie del Battista su Gesù e vanno dicendo tra loro: Tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero (Gv 10, 41). Così, conclude l’evangelista, in quel luogo molti credettero in lui (Gv 10, 42). Si tratta dunque di un’esperienza della fede legata a un luogo e a una circostanza, al ricordo della figura di un maestro. Probabilmente queste persone, trovandosi di nuovo a Gerusalemme dove l’opposizione a Cristo si fa aggressiva e viene meno il rassicurante consenso che regna nel loro gruppo, non sapranno più ritrovarsi. La loro fede è ancora legata all’emozione e non saldamente radicata in un riconoscimento razionale. Non è ancora maturata nella disponibilità ad abbracciare tutte le possibili conseguenze di una vera adesione a Cristo. Assomiglia alla certezza di un bambino, forte finché il papà lo tiene per mano e subito fragile non appena questi lascia la presa. In questo spazio di puerilità si inserisce l’azione del potere. Chi ha i mezzi per governare le emozioni e può scuotere gli animi in un senso o in un altro, è anche padrone di questa fede troppo umana, la può spegnere o riaccendere. L’abitudine a lasciare che gli altri giudichino per noi rende fragili gli argini che dovrebbero contenere la paura e la confusione sulla vera autorità.
Ci sono quindi anche alcune di queste persone, colpite da Gesù ma non ancora decise per lui, mescolate a quelle convinte o comprate dai capi, nella folla radunata nel Pretorio che grida davanti a Pilato ed esige la crocifissione di Gesù.
Dal capitolo 11 al capitolo 15 del suo Vangelo, Marco presenta gli eventi dell’ultimo breve periodo trascorso da Gesù a Gerusalemme, dall’ingresso regale alla morte sulla croce. Questa manciata di giorni è nota come il “ministero di Gesù a Gerusalemme”. Seguiamo dunque Gesù e osserviamo che cosa fa e come reagisce alla ostilità con la quale viene sempre più apertamente affrontato dai capi.
Semplificando, potremmo dire che Gesù sceglie prima di parlare e poi di tacere.
Innanzitutto dunque, Gesù parla. Dopo l’evento grandioso dell’ingresso in Gerusalemme, Gesù è tornato a Betania per passarvi la notte (cfr. Mc 11, 11). L’indomani, lungo quella stessa strada, maledice un fico sul quale ha invano cercato dei frutti (cfr. Mc 11, 12-14) e lo fa seccare: ne trarrà una lezione sulla forza della fede per i suoi discepoli (cfr. Mc 11, 20-24); arrivato a Gerusalemme, entra nel tempio e ne scaccia i venditori, ricordando le antiche profezie e rimproverando coloro usano del culto ma ne hanno smarrito il senso (cfr. Mc 11, 15-18); smaschera la falsità dei capi, mettendoli in difficoltà sulla questione del valore da attribuire al battesimo di Giovanni (cfr. Mc 11, 27-33); li accusa di mettersi contro le Scritture, parlando della pietra scartata dai costruttori e paragonandoli ai vignaioli omicidi della parabola (cfr. Mc 12, 10-11); sfugge ai loro tranelli politici, come quando lo interrogano sul tributo da dare a Cesare (cfr. Mc 12, 13-17); rimprovera chi gli pone le domande più astratte e complicate, sovrastando le dispute dottrinali tra i vari gruppi e richiamando tutti alla semplicità necessaria per giungere alla vera fede (cfr. Mc 12, 18-27); risponde invece alle domande vere, come quelle dello scriba che, dopo averlo a lungo ascoltato, gli chiede quale sia il primo dei comandamenti (Mc 12, 28-34); attacca l’insegnamento rigido dei dottori della legge, ponendo domande inedite sulla Sacra Scrittura per fare ragionare i presenti e portarli a risolvere in una sintesi di fede la grande domanda che aleggia sul suo conto (cfr. Mc 12, 35-37): il Messia, dice, Davide stesso lo chiama Signore: da dove risulta he è suo figlio? (Mc 12, 37); accusa poi gli scribi di coprire soprusi orrendi dietro una facciata di falsa pietà (cfr. Mc 12, 38-40). Cristo insomma, consegnandoci la sua ira, ci testimonia che il male deve essere chiamato per nome e combattuto fino all’ultimo, mentre il bene riconosciuto e valorizzato. Ci insegna che la fede si può sviluppare nella chiarezza del giudizio e nella libertà di riconoscere la verità.
Da ultimo, Gesù parla a lungo della fine del mondo (cfr. Mc 13). Il capitolo 13 del Vangelo di Marco è infatti interamente dedicato agli eventi che concluderanno la storia. Ascoltiamo le sue parole, che valgono anche per il nostro tempo. Guardate che nessuno vi inganni (Mc 13, 5), dice anzitutto. Non dovremmo sorprenderci della facilità con cui gli uomini sembrano poter rinunciare alla loro fede, muovendo in massa dietro proposte che hanno solo l’apparenza della verità e della religiosità. Gesù ci ha messo chiaramente in guardia dalla possibilità di venire ingannati: Molti verranno nel mio nome dicendo; “Sono io”, e inganneranno molti (Mc 13, 6). Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro. E quando vi condurranno via per consegnarvi, non preoccupatevi… (Mc 13, 9-10). Gesù insiste: Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui; ecco, è là”, voi non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi per ingannare, se possibile, gli eletti. Voi, però, fate attenzione! Io vi ho predetto tutto (Mc 13, 21-23). Parlando della fine dei tempi, Gesù pone dunque un argine alla paura della persecuzione, prevede che il potere cercherà di creare confusione attorno alla questione della vera autorità, per indicare ai discepoli la strada del discernimento e della perseveranza. Parla infine del suo ritorno ed annuncia che non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute (Mc 13, 30). Con questo ci insegna che tutto ciò di cui sta parlando accade in ogni tempo e che nessuna generazione di cristiani ne è risparmiata. Ci insegna che la fede dei semplici deve essere protetta e che è giusto lottare per essa. Ci insegna che, mentre attraversiamo le bufere della confusione e dell’ingiustizia, non possiamo ritrovare coraggio se non ricordando che è lui il padrone della storia. La forza della fede sta nella vigile attesa di lui. Perciò, conclude, vegliate! (Mc 13, 37), perché la vostra fede in me non si spenga.
Parla, dunque, Gesù, in quest’ultimo tratto del suo ministero pubblico. Egli agisce, insegnando e consegnando le sue profezie, rimproverando coloro che non lo riconoscono e che ingannano gli altri per il proprio tornaconto. Insomma, si pone davanti al mondo con la potenza della sua parola, una forza capace di trasformare i cuori dei semplici e di arginare le potenze del male. Ma c’è anche un secondo registro a cui Gesù affida il suo estremo messaggio, il registro del silenzio. In esso, Gesù scende gradualmente in un altro livello della sua azione e vi dà spazio. Riprendiamo dunque a seguirlo.
Mancano ormai solo due giorni agli Azzimi (cfr. Mc 14, 1) e Gesù è ancora a Betania (cfr. Mc 14, 3). Le sue parole si fanno sempre più concise. Mentre prende il pasto in compagnia degli amici più intimi, egli annuncia di nuovo la sua morte (cfr. Mc 14, 8). Due giorni dopo si trasferisce per l’ultima volta a Gerusalemme, dove ha fatto preparare una sala per celebrare la Pasqua (cfr. Mc 14, 12-16). Qui, durante l’ultima cena con i suoi, accetta il tradimento di Giuda, in obbedienza alle Scritture (cfr. Mc 14, 21); poi istituisce l’eucarestia, anticipo simbolico di ciò che di lì a poco avverrà sulla croce e reale continuità della sua presenza nel tempo (cfr. Mc 14, 22-25). Sostiene Pietro, insieme a tutti i suoi compagni, prevedendo il suo rinnegamento e lasciandogli così una parola che lo orienterà dopo che avrà commesso il suo peccato (cfr. Mc 14, 29-31). Spostatosi nel giardino del Getsemani con i suoi discepoli, Gesù infine prega da solo (cfr. Mc 14, 32-42): è il momento più drammatico e profondo in cui egli, nel dialogo col Padre, accoglie fino in fondo la sua volontà. Tutto in resto non sarà che manifestazione e sviluppo visibile di questo intimo evento personale. Da questo momento, l’agire di Gesù diventa quasi un lasciarsi trasportare, egli appare passivo, rinuncia alla sua forza e si consegna totalmente, in un drammatico atto di obbedienza: Si compiano dunque le Scritture (Mc 14, 49).
Dopo aver riferito del bacio di Giuda e della cattura di Gesù (cfr. Mc 14, 43-49), Marco riporta due scene analoghe. In esse, silenzi e parole di Gesù si intrecciano in ordine inverso l’una rispetto all’altra, ma secondo la stessa logica. La prima scena si svolge davanti al Sinedrio (cfr. Mc 14, 53-64). I falsi testimoni sfilano davanti all’imputato, ma di fronte delle accuse che si susseguono Gesù tace. Finché non viene interrogato dal sommo sacerdote in modo diretto: Sei tu il Cristo, il figlio del Benedetto? (Mc 15, 61). Gesù allora manifesta apertamente la sua identità: Io lo sono (Mc 15, 62), ottenendo in cambio la condanna a morte per bestemmia (cfr. Mc 14, 63-64). La seconda scena si svolge invece davanti a Pilato (cfr. Mc 15, 1-15). In questo caso la domanda diretta, posta dal governatore, precede l’elenco dei capi di imputazione presentato dai capi dei Giudei. Tu sei il re dei Giudei? (Mc 15, 2), chiede Pilato, e Gesù risponde subito: Tu lo dici (Mc 15, 2). Poi tace di nuovo e non si cura delle accuse che si moltiplicano a suo carico. Marco specifica che Pilato ne restò meravigliato (Mc 15, 5) e proprio registrando questa reazione del governatore romano rende testimonianza alla realtà che sfuggiva al pagano: Gesù si è ormai ritirato in un altro luogo, dal quale scaturirà la sua azione decisiva. Quando Gesù, sul piano dell’azione storica e della costruzione, ha ormai tutto compiuto, quando ha pronunciato tutte le parole necessarie per annunciare e correggere, per prevedere il destino dei suoi e sostenerli, a Gesù non rimane che la forza della nuda testimonianza: Io lo sono (Mc 15, 62), Tu lo dici (Mc 15, 2). Essa ha una fecondità misteriosa, perché rivela un altro attore degli eventi, il Padre in cui Gesù confida: Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado […]. Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me (Gv 8, 14.18)
E infine Gesù riceve in silenzio la condanna, si sottopone alla flagellazione (cfr. Mc 15, 15) e allo scherno volgare dei soldati pagani (cfr. Mc 15, 16-20); in silenzio percorre la via che porta al Golgota (cfr. Mc 15, 21) e viene crocifisso (cfr. Mc 15, 24-27); accetta senza reagire le ingiurie dei passanti (cfr. Mc 15, 29, 30), il sarcasmo dei capi dei sacerdoti che ancora chiedono un miracolo perché vediamo e crediamo (Mc 15, 32) e perfino gli insulti dei due malfattori crocifissi ai suoi fianchi (cfr. Mc 15, 32). D’ora in poi Gesù non parla più agli uomini, si rivolge solo al Padre in un ultimo grido innalzato dalla croce prima di morire (cfr. Mc 15, 34). Infine Gesù spira e così entra nel vero santuario, nel cielo stesso, per comparire al cospetto di Dio in nostro favore (Eb 9, 24). Da qui egli restaura, redime, riacquista ciò che era suo e come pegno di questa vita che torna, l’evangelista Marco ci mostra il riconoscimento del centurione sotto la croce: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio (Mc 15, 39).
Pensando alla scena della Pentecoste e alle centinaia di persone che quel giorno aderirono alla fede, convertendosi a Cristo e riunendosi agli Apostoli (cfr. At 2, 41), veniamo presi da una grande gioia. La fede incerta di coloro che avevano seguito Cristo è resa forte e stabile dal dono dello Spirito Santo. Egli fa risorgere anche coloro che hanno vacillato e ceduto a causa dei terribili eventi della Passione. Il sacrificio di Cristo si compie in una festa di fede e di comunione.
Laddove tutti i mezzi umani sono stati giustamente impiegati, laddove ciò che era doveroso fare è stato fatto, allora dobbiamo dire con Cristo: Tutto è compiuto (Gv 19, 30). Cristo stesso ci richiama con il suo silenzio a ritirarci in un altro spazio, a partecipare alla sua Passione redentrice operando su un altro piano, più profondo, quello del dialogo personale con Dio e dell’intercessione. Quando la circostanza sembra umanamente senza uscita, risuona una chiamata ad unirci a lui nell’offerta silenziosa e apparentemente inattiva della nostra vita, perché l’atto con cui il Figlio ci ha salvato possa avere impatto sul nostro mondo. Il Vangelo ci insegna così a vincere la sviante superficialità con cui tendiamo a giudicare le vicende del mondo e della Chiesa, della nostra stessa vita.
Meditazione per la Domenica delle Palme
Roma (Casa di formazione delle Missionarie di san Carlo), 28 marzo 2021