Nel 1959 don Giussani scrisse un testo intitolato: Vita come vocazione1. Si tratta di un’espressione che ci è ormai consueta, forse troppo perché possa essere ancora percepita come significativa. Dobbiamo quindi riscoprirla per poter aiutare gli altri a comprenderla.
Il disorientamento che serpeggia nel mondo in cui oggi viviamo può diventare un grande aiuto per la nostra vita, se esso risuona dentro di noi come un invito a prendere coscienza di ciò che ci è successo.
La vocazione: una serie infinita di fatti
Vorrei partire dalla mia esperienza della vocazione. Se penso alla mia vita, posso notare che la vocazione in me, prima di essere una riflessione su Dio o sugli altri, prima ancora che un sentimento di amore per Gesù, per Dio o per i fratelli, prima di qualunque mio pensiero o sentimento, è un fatto accaduto.
I nostri pensieri possono essere profondi o aridi, i nostri sentimenti possono venire meno, ma quello che non viene meno è il riconoscimento che egli ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Questa riflessione di san Giovanni, che ha costituito la causa agente della conversione di tanti uomini, è nata nel suo cuore di ribelle, portato poi alla pacatezza e alla commozione della maturità, proprio dalla considerazione che Lui lo aveva amato per primo.
All’origine di tutto c’è un fatto: Dio mi ha voluto. E siccome mi ha voluto, mi vuole e mi attende. Penso che ciascuno di noi non possa ragionevolmente passare una giornata senza ricordarsi di questo.
«Dio mi ha chiamato dal nulla»2, scrive Giussani in questo testo del ’59. La semplicità assoluta, quasi sconvolgente, di questa notazione è come un pozzo senza fondo. Potevo non esserci e ci sono. Cosa c’è di più radicale, di più semplice, di più fondamentale, di più commovente, di più alimentatore di questo? Ci saranno tante altre esperienze che chiariscono questa, che la approfondiscono, ma anzitutto c’è l’evidenza che io ci sono. Questa è la connotazione nella nostra vita, di tanti momenti singoli, come l’istante della nascita. Momenti puntuali, che non abbiamo creato noi, nei quali Dio ci ha chiamato.
La vocazione è una serie infinita di fatti, che Dio solo conosce, perché per noi c’è solo il finito. Avvertiamo però, dal susseguirsi di questi momenti singoli, che la serie di fatti creati da lui è infinita.
Penso per esempio ai miei genitori. Bisogna forse avere sessant’anni per cominciare a capire chi sono stati i nostri genitori. È un tema su cui ritorno molto spesso con i seminaristi, perché lo ritengo radicale: riconoscere i propri genitori, anche quando non si sono conosciuti, come è successo a mio padre, la cui madre è morta quando è nato. C’è qualcosa di archetipo in questa vicenda: si tratta di accettare la carne come grazia di Dio, come strada attraverso cui Dio parla e agisce. «Caro cardo salutis»3. La carne è il punto in cui la nostra salvezza si radica. Quanto i luoghi della nascita sono importanti per il costituirsi della nostra vocazione! Di questa espressione, “luoghi della nascita”, entrano a far parte molte altre realtà, la geografia e la storia della nostra esistenza.
Ciascuno di noi potrebbe raccontare fatti apparentemente casuali, che hanno segnato la sua vita. Nella mia, per esempio, un primo fatto significativo è accaduto all’inizio degli anni Cinquanta: siccome Fanfani aveva fatto costruire nuove case a Milano, i miei genitori, che non avevano più casa e si erano quindi trasferiti a Leggiuno sul lago, sono tornati ad abitare a Milano. Se non fossi andato a Milano nel ’53 tutto sarebbe stato diverso. Penso al fatto che il quartiere in cui abitavo aveva come liceo classico il Berchet dove insegnava Giussani. Allora non c’erano molti licei classici a Milano e, anche se ero in periferia, quelli che abitavano nella mia zona facevano riferimento proprio al Berchet.
Ciascuno può ricordare la gratuità di certi fatti della sua vita. Perché se uno è qui, è perché ci sono stati quei fatti, che avrebbero potuto non essere. Le case a Milano non le ho costruite io; che il Berchet fosse il liceo del mio quartiere non l’ho deciso io. Che tu quel giorno hai incontrato quella persona che ti ha detto proprio quelle parole e sei rimasto colpito dai suoi occhi, dai suoi capelli, dal suo vestito, e perciò sei andato là, sei rimasto, sei tornato… Non hai creato tu quei fatti.
Non sto parlando di un automatismo. È chiaro che avrei potuto andare al Berchet, incontrare don Giussani e dire: «Non mi interessa». Non si tratta di un meccanismo inarrestabile che accade indipendentemente da me. Nulla accade indipendentemente da me. Ma certo tutto accade prima di me. Prima del mio “sì” c’è un fatto. Il mio “sì” lo registra come evento che riconosce interessante e decisivo per sé.
L’esistenza di ciascuno è intessuta di fatti apparentemente casuali che poi, se guardati insieme, rivelano un disegno. Un disegno in cui si intrecciano l’oggettività dell’opera di Dio e la modalità con cui lui mi aveva tessuto.
Non siamo una lavagna bianca davanti a quel che Dio fa. Non siamo un registratore. Recepiamo ciò che Dio compie attraverso il tessuto della natura e della grazia con cui egli ci ha costituito e ci costituisce. È un intreccio: io ho incontrato le persone facendo in me sintesi di tutto ciò che Dio mi aveva già dato e dell’incontro con loro.
Per esempio il modo in cui per anni mi sono abbeverato a don Giussani e lo ho riproposto, è inscindibile dalla mia sensibilità, dalle doti che Dio mi ha dato, dalla storia che mi ha fatto percorrere. E tutto questo è grazia.
Dio mi ha chiamato dal nulla
Scrive sempre Giussani: «Fra miliardi di esseri possibili Dio ha scelto e chiamato proprio me. La mia vita continua perché egli continua a chiamarmi impedendomi di ricadere nel silenzio del nulla da cui fui tratto»4.
Guardare alla mia vita come vocazione è il grande antidoto al nichilismo che respiriamo ogni giorno al veleno che ammorba l’aria di cui dovremmo alimentarci. Di fronte al nichilismo secondo cui veniamo dal nulla e andiamo verso il nulla, per cui tutto è uguale e non c’è niente che resta, noi tragicamente cerchiamo di rispondere con la nostra autoaffermazione. Rispondiamo alla paura della morte dicendo: «Esisto solo io». Ma non si esce dal nichilismo in questo modo, bensì riconoscendo ciò che mi lega al tutto, alla vita, cioè riconoscendo qual è il senso del mondo e della mia persona, la mia dipendenza, il disegno su di me che è fatto di luci e di ombre.
Di fronte a tutte le domande che vengono giustamente dai terremoti, dalle tragedie mondiali, ma anche e soprattutto dalle tragedie personali, dai bambini che muoiono, dai mariti che scappano, ci sono soltanto due grandi alternative: o la vita è guidata dal caso, dal nulla – come diceva Pascoli nel verso più drammatico ed anche più terribile di tutta la sua poetica, «E siamo soli nella notte oscura»5 -, oppure essa esprime un disegno, è espressione di una volontà personale, che tutto ha voluto e tutto guida. Una volontà che mi ha chiamato dal nulla perché mi ama e perciò vuole che io sia davanti a lui una persona libera e amante. E perciò ci corregge, ci richiama. Ci fa passare anche attraverso il buio per riconsegnarci alla luce.
A questa considerazione non si arriva se non per una grazia particolare oppure per una purità di cuore davanti ai fatti della vita. Anche Israele, ripensando alle strade che Dio gli aveva fatto percorrere, ha dovuto concludere che all’origine di tutto c’è un Dio creatore, un Dio personale, amante e libero, che vuole noi liberi e amanti come lui.
Non ci si libera facilmente dall’antropomorfismo, dalla tentazione di sentire Dio come noi, dalla difficoltà dell’adorazione e del riconoscimento che colui che ci ama e ci ha voluti non è come noi, è diventato come noi ma non è come noi.
I Salmi e tanti altri testi documentano la continua lotta di Israele di fronte all’alterità di Dio. Nei Salmi però troviamo anche la risposta di Dio: “Tu credi che io sia come te? Credi che io abbia bisogno dei tuoi sacrifici? Credi che io venga a mangiare le cose che tu mi prepari?”. La composizione tra la libertà di Dio e la libertà dell’uomo è la cosa più difficile che ci sia. Allora dobbiamo stare ai fatti, piuttosto che allontanarci con pensieri. E il fatto è questa libertà che mi ha voluto.
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure, l’hai fatto poco meno degli angeli. L’autore del salmo non ha il coraggio di dirlo, ma voleva dire questo: l’hai fatto poco meno di Te. Infatti di gloria e di onore lo hai coronato, gli hai dato potere sulle opere delle tue mani e tutto hai posto sotto i suoi piedi (Sal 8).
Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio. Sono stupende le tue opere. Tu mi conosci fino in fondo. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe, i tuoi occhi mi hanno visto. Perché tutto era scritto nel tuo libro. I miei giorni erano già fissati quando ancora non ne esisteva uno (Sal 139).
Sei tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai fatto riposare sul petto di mia madre e al mio nascere tu mi hai raccolto, perciò, dal grembo di mia madre tu sei il mio Dio (Sal 22).
Tu mi hai istruito fin dalla giovinezza. E ancora oggi, nella vecchiaia e nella canizie proclamo i tuoi prodigi. Dio, non abbandonarmi (Sal 71).
La voce di Dio
Vorrei adesso entrare in una nuova considerazione. Perché Dio mi ha voluto e mi accompagna?
Prima di formarti nel grembo materno, io ti conoscevo. Questa volta è Dio che parla a Geremia. Prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato (Ger 1,5). Ecco dunque perché mi ha voluto: per consacrarmi, per un compito nel mondo. Nella parola consacrazione, che è vera per ogni uomo, soprattutto nel battesimo, sta tutto il duplice meccanismo della vocazione.
Anzitutto la vocazione consiste nell’essere suoi. Egli ti rapisce, come dice Paolo: io, prigioniero di Cristo (Ef 3,1). In secondo luogo questa consacrazione è espressione del Suo desiderio che io sia segno. Dio stabilisce con me un dialogo, mi dà un nome e questo nome è un compito che non si cancellerà più, nonostante i miei errori e le mie infedeltà. Allora dobbiamo essere attenti, dobbiamo ascoltare cosa Dio ci dice, cosa Dio ci rivela nel nome che ci ha dato, a cosa ci ha chiamato.
In quel tempo Eli stava riposando in casa. L’arca dell’alleanza non aveva stabile dimora in Gerusalemme. Eli era il sacerdote che custodiva l’alleanza, un uomo che Dio aveva chiamato, ma di cui Dio poi, purtroppo, si pentirà. Qui sta una grande e importante considerazione: dobbiamo chiedere a Dio la grazia di dire “sì” fino all’ultimo giorno. La nostra libertà è una cosa seria, sia come adesione a Dio, sia come possibilità di retrocedere. Dio ci chiama, dobbiamo essere attenti a cosa dice.
In quel tempo Eli stava riposando in casa, perché i suoi occhi incominciavano a indebolirsi, non riusciva più a vedere. Era nel locale accanto a quello dove stava l’arca.
La lampada non era ancora spenta. C’era un bambino che era stato consacrato dai suoi genitori e portato al tempio: Samuele, colui che costituirà la radice della regalità in Israele. Samuele era coricato nel tempio dove si trovava l’arca di Dio. Era lì, proprio sotto l’arca, in un luogo sacro. Un bambino rannicchiato. Non sapeva chi era Dio. Sapeva che i suoi lo avevano consacrato a lui.
Allora il Signore chiamò: “Samuele”. Quegli rispose: “eccomi”. Dio chiama. E aveva la voce di Eli, anche se Eli dormiva. Corse da Eli e disse: “Mi hai chiamato? Eccomi!” Eli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire”. Tornò e si mise a dormire. Ma il Signore chiamò di nuovo: “Samuele!” e Samuele alzatosi corse da Eli. E quegli rispose di nuovo: “Non ti ho chiamato figlio, torna a dormire!”. In realtà, annota il libro della Bibbia, Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, non gli era ancora stata rivelata la parola del Signore.
Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!”, per la terza volta, come farà Gesù con Pietro. Questi si alzò ancora e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto. Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti si chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”.
È Dio che chiama, ma noi sentiamo la voce di un uomo. Noi sentiamo la voce di un fratello, o di un amico, o di un maestro: ma quella è la voce di Dio.
Chiamò ancora come le altre volte: “Samuele, Samuele!”. Samuele rispose subito: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”. Allora il Signore disse a Samuele: “Ecco io sto per fare in Israele una cosa tale che chiunque udirà ne avrà storditi gli orecchi” (1Sam 3,2-14).
La voce di Dio parla attraverso persone, cose, circostanze. Scrive Giussani sempre in quel testo: «La voce di Dio che chiama si incarna e si traduce normalmente nel meccanismo stesso delle cose»6. Vorrei brevemente fare tre annotazioni su questa voce di Dio.
La voce di Dio è misteriosa
La voce di Dio è misteriosa: deve essere infinitamente ascoltata. Non pensiamo di averla definitivamente archiviata perché l’abbiamo già sentita a sufficienza. La voce di Dio è sempre nuova, rivela sempre nuove sfumature, nuovi significati di ciò che hai vissuto e che vivi e che prima non avevi capito.
Questa è forse la cosa più importante che posso dirvi. Come dice Agostino: «Si comprehendis non est Deus»7. Dio è Colui che ci chiama ad aprirci a una cosa nuova che ancora non abbiamo visto. Non è detto che sia ciò che ci aspettiamo, ciò che ci fa subito contenti.
Nell’adesione a Dio sta la gioia dell’uomo, ma questa adesione per la nostra materialità può anche implicare molto tempo. Il contraccolpo con cui Dio ci chiama, non è detto che sia accolto subito e subito digerito con facilità.
Dio chiama promettendo il bene
Nel film The tree of life, Terrence Malick ha voluto mettere all’inizio questa frase del libro di Giobbe: Dov’eri tu, quando io ponevo le fondamenta della terra? (Gb 38,4). Nello stesso tempo, come contrappunto necessario di questa affermazione di Dio, c’è la positività. Se tu lo segui, Egli ti porta dentro il bene. Dio chiama promettendo il bene.
Continua don Giussani: «Dio ci chiama al dialogo con Lui, Egli è amore che risponde all’amore»8. Solo nell’adorazione c’è la gioia dell’uomo. Nessuna figura, oltre a quella di Cristo, ha sintetizzato nella sua vicenda personale entrambe queste connotazioni come Abramo che, per fede, seguendo la chiamata di Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità (Eb 11,8).
La nostra sapienza è aderire alla sua volontà
Tutta la vita corre lungo la dialettica fra questi due poli: la sovranità di Dio e la sua volontà di bene. Perciò la sapienza della vita consiste nel conoscere e aderire alla sua volontà.
Il terzo capitolo dell’Esodo, assieme al brano della vocazione di Samuele, costituisce il testo decisivo per entrare dentro il mistero della vocazione.
Si tratta dell’episodio del roveto ardente: Ora Mosè stava pascolando il gregge del suo suocero Ietro, sacerdote di Madian, [era andato via di casa perché era ricercato] e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto.
Mosè si trova tra gli sterpi. I rovi nel deserto fanno parte di una vegetazione che ha bisogno di pochissima acqua e in cui tutto ciò che si espone al sole si trasforma in spine. Il roveto fa parte della vita del deserto ed è una vita piena di spine.
Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. C’è per me in quest’immagine la sintesi di tutto quello che ho voluto dirvi: la sovranità di Dio e la sua volontà di bene, la sacralità di Dio e la piccolezza dell’uomo.
Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!” [come Samuele]. Riprese: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! Non posso disporre della sacralità di Dio come voglio. Non posso dire io a Dio cosa fare, decidere quale sia il bene della mia vita. Lo decide Dio. Nello stesso tempo egli è fuoco che brucia, fascino che attrae con la sua luce e il suo calore.
Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, cioè il Dio che agisce. Il Dio che fa, il Dio che sceglie e fa attraverso gli uomini. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio (Es 3,1-6).
Educare alla vocazione: comunicare vivendo
La scoperta della vocazione non si trasmette agli altri come un discorso o come una riflessione. Non si tratta tanto di fare lezioni sulla vita come vocazione, ma di invitare a partecipare a qualcosa che sta accadendo a me. Nella misura in cui vivo la mia vita con quell’intensità e verità che ci hanno indicato i Salmi e i Vangeli, chiamerò gli altri a prendere coscienza di ciò che in loro è accaduto. Vorrei però dettagliare alcuni aspetti.
Scoprire la positività della vita
Il primo e fondamentale: aiutare coloro che vivono con noi, al fatto che c’è un’esperienza buona e positiva all’origine della vita.
In una sua intervista ad Avvenire, Jean Vanier dice: «Annunciare la buona novella non è dire “Dio ti ama”, ma “Io ti amo e voglio impegnarmi con te”»9. È un’espressione che può essere equivocata, ma che è pedagogicamente molto importante. La persona, direbbe don Giussani, non è cambiata da un discorso, ma da una presenza. Per annunciare la buona novella occorre accompagnare i ragazzi nei diversi ambiti della loro vita, mostrando come l’ipotesi che Dio mi ha voluto e mi ama, è la più ragionevole e feconda per leggere tutte le situazioni dell’esistenza.
C’è un disegno, un Tu che ti chiama, un’utilità cui solo tu puoi dare risposta. Non sei un granello di polvere disperso nell’oceano dell’universo. Sei un mattone per la costruzione della casa che è il mondo.
Imparare ad ascoltare e a vedere
Dobbiamo aiutare i ragazzi a cogliere i suggerimenti di Dio. Don Giussani in Tracce d’esperienza cristiana parla della vocazione usando proprio la parola suggerimenti10. I suggerimenti di Dio ci sono dati attraverso i fatti della vita, perché Dio parla normalmente attraverso di essi. Dobbiamo dunque accompagnare i ragazzi dentro gli eventi della vita quotidiana.
Questo significa anche aiutarli ad ascoltare. È difficile ascoltare un altro, uscire da sé per ascoltare un altro; spesso ci si limita ad ascoltare se stessi o il prolungamento di se stessi, che sono le tecnologie. Occorre quindi aiutare i ragazzi a vedere le cose e ascoltare le voci. È la prima cosa che Dio ha fatto, prendendo per mano Adamo e portandolo a vedere le cose.
Aprirsi agli altri
Dio parla soprattutto attraverso altri uomini. Imparare ad aprirsi agli altri è una cosa tanto primordiale quanto difficile. Come abbiamo visto nell’episodio di Eli e Samuele, Dio parla con la voce degli uomini. Dio ha bisogno degli uomini e attraverso la loro voce ci fa capire cosa vuole dire Lui.
Afferma san Giovanni: Se non ami i fratelli, come fai ad amare Dio? (cfr. 1Gv 4,20). Sembrerebbe vero l’opposto, ed in un certo senso lo è, ma è anche vero questo. Se penso di arrivare a Dio scavalcando i fratelli, in genere arrivo soltanto alla copia di me stesso.
Aprirsi ai fratelli significa anzitutto aprirsi alle persone che Dio ha scelto di mettermi accanto, come strada a lui. Una compagnia vocazionale, come un marito per una moglie, o una moglie per un marito. Non tutte le persone sono uguali. Nel tempo alcune potranno avere più rilievo, altre meno, altre possono essere più significative al di fuori della compagnia vocazionale, ma non possono mai scavalcarla. Anche se uno venisse a insegnarti un vangelo diverso da quello che ti ho insegnato, dice Paolo, anche se fosse un angelo, caccialo (cfr. 2Cor 11,1-4). Non puoi scavalcare coloro che Dio ti ha messo a fianco. Non si può pensare di trovare felicità nel futuro, cancellando il presente o il passato.
La certezza della fedeltà di Dio
Essendo Dio più grande del nostro cuore, perché per natura egli è «id quo maius cogitari nequit»11, seguirlo implica un sacrificio, una ginnastica continua per poter entrare in una cosa sempre nuova, così che qualche volta possiamo sentirci disorientati.
«Rimangono le tentazioni e i peccati, ma quello che conta è che tutte le fibre del nostro essere acquisiscono una nuova direzione, si mettono al servizio del regno di Dio. Anche le tentazioni e i peccati diventano utili per la nostra umiliazione, e diventano perciò strumenti di conversione»12. Il male è uno strumento che Dio usa per richiamarci dall’enorme distrazione in cui viviamo.
Non dobbiamo perciò avere paura del sacrificio, perché esso ha un enorme frutto di gioia. Voi lo amate pur senza averlo visto, dice san Pietro. E parlava a persone che non avevano potuto vedere Gesù. Lui lo aveva visto, ma loro no. Voi lo amate senza averlo visto e perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa (1 Pt 1,8), mentre attendete la piena rivelazione.
Occorre imparare ad entrare nella dimensione più vera dell’esistenza, che è la speranza. La speranza non è un’illusione, non è il tentativo di dimenticare ciò che non va, non è nemmeno un’ideologia sul futuro. La speranza è la certezza della fedeltà di Dio. Dio è fedele e per questo vi ha chiamati (1Cor 1,9).
Lezione tenuta in occasione delle vacanze estive della Fraternità san Carlo a Madonna di Campiglio, 3 luglio 2011.
Note al testo
1 Cfr. L. Giussani, Vita come vocazione, in Porta la speranza. Primi scritti, Marietti 1820, Genova 1997, 163-167.
2 L. Giussani, Vita come vocazione, op. cit., 164.
3 Tertulliano, De resurrectione mortuorum, VIII, 6-7.
4 L. Giussani, Vita come vocazione, op. cit., 164.
5 G. Pascoli, «I due orfani», in Poesie, I, Oscar Mondadori, Milano 1981, 294.
6 L. Giussani, Vita come vocazione, op. cit., 164.
7 Agostino d’Ippona, Sermo 52, 16.
8 L. Giussani, Vita come vocazione, op.cit., 166.
9 J. Vanier, Fragilità. Il nostro grido di salvezza, in «Avvenire», 10 luglio 2011, 18.
10 Cfr. L. Giussani, Tracce d’esperienza cristiana, in Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, 121.
11 Anselmo d’Aosta, Proslogion, II, 1.
12 M. Camisasca, Una voce nella mia vita, Piemme, Casale Monferrato 2008, 59