Nuovi inizi

Don Paolo Sottopietra ci spiega cosa significa la partenza di un missionario per una nuova destinazione.

In questi giorni molti dei nostri missionari stanno raggiungendo le loro nuove destinazioni. Alcuni partono da Roma, dopo gli studi, avendo terminato la loro formazione. Altri lasciano un posto di missione per trasferirsi in un’altra casa, con nuovi incarichi. Si preparano a vivere una pagina della loro vita che ancora non conoscono, con altre persone, spesso in un paese diverso da quello in cui sono nati e cresciuti. Può succedere a trent’anni, ma anche a quaranta o cinquanta.
L’incontro con una nuova situazione richiede una disponibilità profonda. Neppure chi si prepara a questo per tanti anni può darla per scontata. Per far spazio ad una lingua nuova bisogna lasciare la propria, con il suo modo di pensare e di cogliere la realtà (ogni lingua ne ha uno). Per inserirsi nelle abitudini di un altro popolo, è necessario spogliarsi. Per conoscerlo, bisogna dedicarsi allo studio dei fatti che ha vissuto, comprendere le ferite che porta e le luci che lo rendono grande. Per andare con simpatia verso la gente a cui siamo mandati, dobbiamo spesso mettere in discussione i nostri pregiudizi.

A chi parte per la missione consigliamo una grande essenzialità. Come il giorno in cui siamo entrati in seminario, vogliamo portare con noi solo ciò che è necessario. È un’indicazione molto concreta: poche cose, pochi libri, solo quelli più importanti, poco bagaglio. Questo ci aiuta a fare spazio in noi, per arrivare senza il carico di pesi inutili. Non vogliamo essere preoccupati di conservare, di difendere, di trasportare le nostre cose. La partenza può essere occasione per giudicare, scegliere e infine per disfarsi di ciò che è superfluo. Sappiamo che tutto ci sarà ridato. «Per ogni cosa che lasciate, ve ne darò cento in cambio», ci ha promesso Gesù. «Portatevi una tunica sola, lasciate a casa la cintura con il denaro, i sandali, il bastone. Tutte cose che non vi serviranno. Vi farò trovare io il salario a cui avete diritto».

In missione vogliamo arrivare poveri, perché essere poveri vuol dire essere liberi. Se siamo disponibili a ricevere tutto da Cristo che ci manda, siamo anche aperti, curiosi, lieti, proiettati in avanti, pieni di attesa.

In missione vogliamo arrivare poveri, perché essere poveri vuol dire essere liberi. Se siamo disponibili a ricevere tutto da Cristo che ci manda, siamo anche aperti, curiosi, lieti, proiettati in avanti, pieni di attesa. Tutto ciò che tratteniamo, invece, facendoci vincere dalla paura di perderlo, ci lega interiormente e ci frena.

Ciò vale anche per le amicizie e gli affetti. Partire significa offrire a Dio il sacrificio di non frequentare gli amici come prima, di non occuparci da vicino delle persone che amiamo. Ciò non significa amare meno. Anche di questo, partendo, vogliamo essere consapevoli e scegliere di dar fiducia a Dio. «Vi darò cento padri, per quello che avete lasciato, vi darò cento madri e cento case per la madre e per la casa che avete accettato di abbandonare per causa mia». Non c’è nulla di disumano in questa richiesta, perché Gesù mantiene le sue promesse. Spesso infatti i nostri genitori ci vengono restituiti come compagni di strada. Anche se distanti, essi condividono con noi ciò che Dio ci chiede e offrono per noi il peso della lontananza. Così la gratitudine verso chi ci ha dato la vita si approfondisce e l’amore si rafforza. Anche tra i tanti volti dei nostri amici emergono nel tempo quelli che pur da lontano ci accompagneranno per un altro tratto di strada o per tutta la vita. Dio vuole che viviamo con verginità gli affetti che ci ha donato lungo la nostra vita. Così potremo accorgerci di chi ci mette accanto ora per costruire.

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