Perché andiamo in missione

In una meditazione di don Paolo Sottopietra riscopriamo l’urgenza che Cristo sia annunciato a tutti gli uomini della terra. Alcuni episodi da Taiwan, Africa e Stati Uniti.

Al centro, Paolo Di Gennaro, parroco della Chiesa dei Pastorelli ad Alverca (Portogallo), guida un momento di canti con un gruppo di giovani.

Perché andiamo in missione? Oggi la risposta a questa domanda non è per nulla scontata. Una mentalità diffusa in molte organizzazioni internazionali, appoggiata dai mezzi di comunicazione e perfino dal cinema, pone infatti obiezioni radicali che possono diventare anche nostre. Tutte le religioni sarebbero in fondo equivalenti e, se gli uomini si salvano comunque, imporre ad altri popoli visioni e valori occidentali è un atto di violenza, fonte di inutili sofferenze. In definitiva, chi non conosce Cristo ha tutto quello che gli serve per vivere e per vivere bene.
Perché dunque andare in missione? Perché dare la vita per annunciare che Dio è diventato un uomo, Gesù di Nazaret?
Per rispondere, voglio raccontare tre esperienze.

Valeria è una ragazza taiwanese, figlia di imprenditori, che ha studiato italiano all’Università Cattolica di Fu Jen, dove insegnano i nostri sacerdoti. Mi ricordo di un dialogo con lei, durante una delle visite alla nostra casa di Taipei. Stavamo passeggiando tra le bancarelle del mercato, davanti alla nostra parrocchia di Taishan. In certi negozi, la luce rimane accesa giorno e notte, in altri i venditori abbassano la serranda e dormono nello stesso posto in cui hanno lavorato tutto il giorno. Una vita senza pause.
Ho chiesto a Valeria che cosa generasse una cultura del lavoro e della fatica di quel tipo. Mi ha risposto sicura, senza doverci pensare: “Noi cinesi siamo in tanti, siamo come numeri. Se uno di questi negozianti cedesse alla stanchezza, verrebbe sostituito in un attimo. C’è una fila di gente che aspetta, pronta a occupare il suo posto”. “Tutti qui difendono lo spazio che hanno conquistato e nessuno ha pietà per nessuno”.

I cristiani portano qualcosa che gli uomini cercano in molti modi, eppure non possono darsi da soli.

Padre Cornelio è un missionario di origine friulana, ormai anziano. L’ho conosciuto qualche anno fa. È un uomo gioviale e colto, sempre molto attivo, che oggi guida la comunità religiosa da lui fondata in Tanzania.
Un giorno gli ho chiesto di parlarmi della sua missione. La religione più diffusa nella zona rurale dove vive è una forma di animismo, basato su riti magici antichissimi. Il cristianesimo si sta diffondendo lentamente. Padre Cornelio entra tutti i giorni in case e baracche per incontrare la gente. Il tessuto sociale in cui si immerge è molto ferito. “Gli uomini, in molti casi, si concepiscono e si comportano come i padroni delle vite dei loro familiari”, mi diceva. “Trattano mogli e figli come se fossero delle cose di loro proprietà. Nelle abitazioni in cui entro trovo spesso una terribile durezza, che tutti però vivono come se fosse scontata”. “Dopo tanti anni, ho capito che dove si coltiva la magia anche i rapporti più intimi sono senza amore”.

Infine la storia di Chris, un uomo di quarantadue anni che ha passato gli ultimi ventiquattro in una casa di cura a Broomfield. Di lui mi hanno raccontato le nostre missionarie che vivono in Colorado.
Chris è nato gravemente spastico e non può camminare. Ha difficoltà anche a parlare, ma è molto lucido. Suo padre è morto da tempo, mentre sua madre, dopo il divorzio, si è risposata e ha avuto altri figli. Chris però la vede molto raramente. Quasi nessuno lo va a trovare. L’anno scorso una delle responsabili della casa di cura lo ha segnalato alle nostre suore proprio perché era sempre solo. Da allora si vedono tutte le settimane e ogni volta lui le accoglie con gioia. “Tutti mi guardano e vedono solo la carrozzina. Mi trattano come un dodicenne”, ha detto. “Invece loro vedono qualcosa di più”.
A Pasqua riceverà il battesimo. Dice che nella Chiesa c’è un amore che non ha mai visto altrove e che non vuole più perdere.

Non è vero che chi non conosce Cristo ha tutto ciò che gli serve per vivere. I cristiani portano qualcosa che gli uomini cercano in molti modi, eppure non possono darsi da soli. Portano una novità e una verità, il cui segno sono rapporti più umani, segnati da una delicatezza, da una fedeltà, da un’attenzione e un rispetto che rimangono altrimenti estranei perfino agli affetti più naturali. Per questo sentiamo così ragionevole l’invito che Giovanni Paolo II ci rivolse durante il trentennale di Comunione e liberazione, ormai tanti anni fa. Le parole pronunciate da lui quel giorno continuano a descrivere il senso della nostra vita: “Andate in tutto il mondo a portare la verità, la bellezza e la pace che si incontrano in Cristo Redentore”.

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